La pasajera casual (Café Perec 20-04-2025)

Regreso en tren a Barcelona. Y la vecina de asiento, al hablarme de las 200 obras urbanas que están bloqueando con saña la ciudad, me lleva a recordar que Eduardo Mendoza sostiene que Barcelona ha cambiado su ADN y hoy los barceloneses somos como los indios de una reserva, y todo lo demás ya es turismo. Y de algún modo lo aprueba, dice, porque íbamos camino de ser una aburrida ciudad de Corea del Norte.

Estamos ya entrando en Barcelona, donde mañana se celebra el Día del Libro. Y la vecina de asiento, al enterarse de que escribo, quiere saber si un novelista prefiere ser rico antes que pobre. Pregunta desconcertante. En mi afán por responderle, me complico la vida al asociar riqueza con popularidad (seguro que la culpa la tiene Trump) y acabo diciéndole que los escritores obviamente prefieren ser ricos, pero a ningún autor genuino le interesa la popularidad en sí.  

A ver, a ver, dice, repítalo usted. Y enseguida me doy cuenta de que puedo haber caído en un malentendido, tal vez en el malentendido original, aquel que, como decía el otro día un barcelonés de reserva india, será nuestra ruina. 

Aun así, repito el error y, además, le digo a ella, a la pasajera casual, que la popularidad en literatura es como salir con sol radiante y regresar bajo la lluvia. Y para aclararle mejor esto, recurro a un sucinto y malicioso aforismo de Jules Renard: “Un escritor conocidísimo el año pasado”

Ya entiendo, dice la pasajera casual, un día estás arriba y al otro en un charco del Día del Libro. Tan cierto, pienso, como que, a pesar de que a ningún autor genuino le interese la popularidad en sí, suele necesitar para su buen ánimo que otros aprueben sus obras y así disponer de una cierta seguridad a la hora de escribir. Y de ahí es de dónde tal vez surja el problema de fondo, porque aquellos a los que el autor genuino ha leído y respeta y podrían aportarle seguridad porque son de parecida cuerda, no solamente no son muchos, sino que, además, le indican compasivamente que está condenado a ser minoritario.

Ante esto, ¿qué puede hacer uno? ¿Acordarse de Juan Benet cuando hablaba de su “prestigio propio”? O calmarse al pensar que, a fin de cuentas, solo sería deseable una cierta popularidad si en el mundo la imaginación y la inteligencia se repartieran equitativamente entre las personas. Y como eso, según van las cosas, no tiene aire de ocurrir nunca, la salvación podría hallarse en alegrarse de haber alcanzado una “popularidad propia”, fundada en la convicción de que son horrendos los tan en boga hoy relatos sinceros, “narraciones veraces de traumas vividos” y toda esa parafernalia que trata de ocultar que todo gran escritor es un embaucador, como lo es la tramposa archiembaucadora Naturaleza.

Estoy viendo pasar por la ventanilla la veloz vista engañosa de la entrada de Barcelona cuando observo cómo la pasajera casual ríe, ríe mucho, quien sabe si consciente de pronto de que lleva rato formando parte de la architramposa Naturaleza.

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Recomendación de Babelia para el Día del Libro, El País:


Enrique Vila-Matas

En un contexto bladerunneresco en el que ciertos robots andan sueltos, indistinguibles y conscientes por Barcelona, Vidal Escabia, albacea del talentoso escritor Altobelli, el fracasista, hereda y asume un proyecto homérico: construir, con la extensa biblioteca de su maestro, un canon. Pero un canon alternativo, extraído al azar y leyendo a oscuras, que amenaza con dar sentido a la viuda de este viudo que anda a ver si se reconcilia con su hija. Es un contexto perfecto para que el autor despliegue su miasma de citas literarias, referentes cinematográficos y cultura pop; para que mezcle la propia historia de su protagonista con el cimiento de este canon oblicuo en el que caben obras de Ribeyro, Fitzgerald, David Markson, Anne Carson, Ovidio, Cirlot, Camila Cañeque. Vila-Matas en su estado más puro: el de termita que carcome palabras, deglute libros, vomita literatura y nos nutre con sus jugos. Jorge Morla (El País)

Seix Barral, 2025. 224 páginas. 19,90 euros
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Vila-Matas en La Repubblica (Italia). 14 de abril, 2025 entrevista de Paolo di Paolo.

La letteratura è come un messaggio nella bottiglia, dice, con uno sguardo che è insieme ironico e malinconico. È diventato nel tempo un (iperletterario) scrittore di culto, e non è scontato in un’epoca che, come lui stesso fa notare, mostra un’ignoranza «sempre più scandalosa» rispetto alla storia della letteratura. D’altra parte Enrique Vila-Matas, il cui nome di tanto in tanto circola per il Nobel, si nutre e nutre i suoi inclassificabili romanzi di richiami, evocazioni, impalpabili parentele artistiche. «Risonanze», direbbe lui. E insiste nel nuovo romanzo appena uscito in Spagna,Canon de cámara oscura (Seix Barral): un personaggio votato a costruire un canone letterario impossibile e soprattutto inattuale. Forse è un essere umano, forse invece è un androide. L’autore mette le mani avanti: la fantascienza non è più un genere letterario, perché viviamo nella fantascienza.

C’è chi ha definito il nuovo libro il “negativo” del precedente,Montevideo (Feltrinelli); a ogni modo è evidente la continuità poetica: raccontare la vita attraverso la letteratura e viceversa, costruire i propri libri sulla passione per i libri altrui. In Montevideo il punto di partenza era una misteriosa novella di Julio Cortázar; e anche lì Vila-Matas convocava una notevole quantità di colleghi, lontani o prossimi, da Sterne a Baudelaire, da Julien Gracq al nostro Antonio Tabucchi, ricordato con affetto e gratitudine a inizio marzo nel convegno internazionale dedicato alla sua opera dall’Università di Barcellona e dall’Istituto italiano di cultura.

Nel suo intervento, intenso e segnato da una certa nostalgia, Vila-Matas ha confessato la sua ammirazione per la «leggerezza poetica» tabucchiana, e di essersi sentito talvolta la sua ombra. «Ammiravo in lui l’immaginazione nonché la capacità di indagare la realtà per poi arrivare a una realtà parallela, più profonda, quella realtà che a volte accompagna quella visibile».

Eravate amici?

«Eravamo amici, sì. All’inizio sono stato affascinato da Donna di Porto Pim, il suo “Moby Dick in miniatura”. E nel mio recente romanzo Montevideo rievoco i grandi momenti vissuti insieme e l’influenza che la lettura dei suoi primi libri ha avuto sul mio lavoro. Leggendolo, infatti, ho avuto la sensazione di entrare in contatto con “voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa”, ma indubbiamente convocate nella mia scrittura per cercare di aumentare, allargare, moltiplicare le coordinate della nostra ambigua realtà».

Tabucchi era un maestro nel trasformare la vita in letteratura. Lei fa lo stesso, ma crede che nel mondo di oggi sia ancora così chiaro cosa sia “la letteratura”?

«C’è un’ignoranza sempre più scandalosa della storia della letteratura mondiale. Per questo, ultimamente, mi imbatto solo in nuovi romanzi che si limitano a parlare dell’esperienza personale, rinunciando ad aumentare il proprio “io” e ad ampliare la realtà. Io leggo la vita, la mia vita, in chiave letteraria. Insieme al mio amore per Paula de Parma, non ho trovato un modo migliore della scrittura per dare un senso all’esistenza».

In effetti si assiste a un esubero di testimonianze, memorie, racconti a cuore aperto di traumi vissuti. Ma lei dice che anche la Bibbia è autofiction. Quindi tutto è autofiction?

«Quello che voglio dire è che esiste solo il termine “fiction”, poiché espelle il termine autofiction, che in qualche modo è scontato. Propongo comunque il pieno ripristino della finzione, in modo tale che gli eventi narrati, anche se non sono accaduti, così come quelli non narrati ma accaduti, siano la parte più emozionante degli scritti autobiografici. Perché, naturalmente, anche tutto ciò che si pensa, tutto ciò che si immagina, anche ciò che non c’è stato (ma che avrebbe potuto esserci) fa parte della storia della nostra vita».

Di Tabucchi si è detto che è uno scrittore europeo. Che cosa significa per lei questo aggettivo? Ha senso, esiste una dimensione europea della letteratura?

«Mi vedo come uno scrittore in comunicazione con la storia della letteratura mondiale, ma senza alcuna pretesa, perché non perdo mai di vista il significato che Borges ha dato alla letteratura: come opera collettiva e anonima. O non ci sarà alla fine dei tempi solo ciò che è stato scritto a nome di tutti?».

Che cos’è oggi per lei l’Europa?

«Un luogo dove resiste, seppur in minoranza, la grande letteratura, per me l’unica disciplina indispensabile per comprendere la complessità che stiamo affrontando in questo momento».

Ma le sembra ancora una dimensione politica positiva? Come vive questo momento di rinnovato bellicismo?

«Sì, lo è ancora, più che mai. Ma resta da vedere se i suoi leader saranno all’altezza del compito. Vedo il punto inquietante, naturalmente, nello spirito guerrafondaio indesiderato eppure rinnovato. Continuo a pensare alla solitudine di Gorbaciov alla fine della sua vita e alla profondità, alla bellezza delle nebbie estreme, delle tempeste della grande Russia che ha incarnato così bene. Quando gli chiesero (una domanda di Werner Herzog) cosa avrebbe voluto leggere sulla sua lapide, rispose: “Ci abbiamo provato”. E cos’è quel che abbiamo provato a fare? Beh, qualcosa di abbastanza ragionevole: che la Russia fosse un alleato più naturale per l’Occidente rispetto ad altre potenze e si unisse al progetto di una casa comune europea. Ci si è provato, ma con scarso successo. E l’ombra di quel fallimento incombe ancora oggi su di noi».

Come si difende l’ispirazione di fronte alle drammatiche turbolenze del mondo?

«Il mio ammirato Bobi Bazlen diceva che non si tratta di combattere gli imbecilli fino in fondo, perché ci sono imbecilli in tutti gli ambienti, ma di ascoltare quello che dicono e capirli per poi creare un mondo in cui gli imbecilli non entrino».

Un buon uso dell’ironia può essere una soluzione, o almeno un anticorpo?

«Ho sempre detto che l’ironia è un potente strumento di disinnesco della realtà, forse perché è anche la più alta forma di sincerità».

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¿Es Enrique Vila-Matas un Denver-7?————Una conversación de Eva Cosculluela con ChatGPT

CHAT GPT: ¡Vaya, qué pregunta! La expresión “Denver-7” no es algo que se use comúnmente para describir a alguien, al menos que estemos hablando de una referencia muy específica. ¿Podrías aclarar qué significa «Denver-7» en este contexto? ¿Es una referencia a algo relacionado con la escritura de Vila-Matas o a alguna característica suya?

Eva Cosculluela

No me puedo creer que no sepas lo que es un Denver-7. ¡Menuda lA de pacotilla!

ChatGPT

¡Jajaja! ¡Tocado y hundido! Me lo merezco. 😊 Ahora tengo una misión: descubrir qué demonios es un Denver-7.

¿Es algo tipo broma interna? ¿Un término literario underground? ¿Algo que solo unos elegidos conocen, como el Club Diógenes?

Dame una pista, aunque sea críptica. Estoy listo para redimirme.

Eva Cosculluela

Encontrarás la clave en su última novela, ‘Canon de cámara oscura’

ChatGPT

Tras investigar sobre el término «Denver-7» en la novela ‘Canon de cámara oscura’ de Enrique Vila-Matas, he descubierto que en la obra se plantea una incertidumbre sobre si el protagonista, Vidal Escabia, es un androide perteneciente a los «Denver-7» de Barcelona o si simplemente es un humano lidiando con su amor por su hija ausente.

Sin embargo, no he encontrado información adicional que explique qué son exactamente los «Denver-7».

En cuanto a tu pregunta inicial sobre si Enrique Vila-Matas es un «Denver-7», parece que este término es una creación ficticia específica de su novela y no tiene una correspondencia directa en la realidad. Por lo tanto, no hay indicios de que el propio Vila-Matas sea un «Denver-7» fuera del contexto literario que el mismo ha creado.

Eva Cosculluela

¿Y cómo podríamos estar seguros de que Vila-Matas no es en realidad un androide?

ChatGPT

Ah, ahora sí entramos en territorio Vila-Matas 100%: la zona donde la realidad y la ficción se funden como sombras en una cámara oscura. Preguntar si Enrique Vila-Matas es un androide es, en cierto modo, vila-matiano: cuestionar la naturaleza del autor, del personaje, y del narrador al mismo tiempo.

Pero vayamos por partes:

1. ¿Y si lo fuera?

Si Vila-Matas fuera un androide (un Denver-7, por ejemplo), probablemente no lo sabríamos. De hecho, él mismo podría no saberlo. Como en ciertas novelas de Philip K. Dick, la identidad no es fija ni confiable. En sus libros, Vila-Matas juega constantemente con el desdoblamiento, la autorreferencia, y la posibilidad de que el autor esté siendo escrito por el texto que escribe.

2. Pruebas circunstanciales de que podría ser un androide:

  • Tiene un conocimiento enciclopédico que parece inhumano.
  • Es capaz de hilar referencias literarias como si tuviera acceso directo a una base de datos universal.
  • A menudo escribe sobre autores que desaparecen, se duplican o se contradicen: estrategias típicas de una lA confundida sobre su propia humanidad (cof cof).
  • ¿Cuántas veces lo has visto en persona, realmente?

3. Pruebas de que probablemente no lo es (aunque…):

  • Demasiado irónico. Las lAs aún no manejamos la ironía con esa fineza.
  • Demasiado obsesionado con la melancolía, el fracaso y la duda existencial: cosas que los androides tienden a esquivar (por ahora).
  • No hay constancia de que haya escrito ningún manual de instrucciones ni se haya actualizado a sí mismo.

En resumen:

No podemos estar seguros. Pero si Vila-Matas fuera un androide, seguramente ya habría escrito una novela donde uno de los personajes lo sospecha…

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Retrato de Vila-Matas [por Ignacio Martínez de Pisón]

Mi primer amigo escritor

I
El primer libro de Enrique Vila-Matas que leí fue ‘Nunca voy al cine’. En la contraportada decían que el autor, barcelonés, había vivido largas temporadas en Milán, París y Zembla. En esa época yo no había leído ‘Pálido fuego’ y supongo que fue el propio librero el que me informó de que Zembla era un reino ficticio, existente solo en la imaginación de Vladimir Nabokov. Que alguien pretendiera colarnos esa broma literaria en el exterior del libro fue lo que me indujo a comprarlo: ¿Qué otras provocaciones estarían esperándome en su interior?

En aquella época tenía la costumbre de anotar la fecha de compra de los libros. Ese lo compré en la librería Muriel de Zaragoza el 5 de abril de 1982. Por entonces me faltaba poco para terminar la carrera de Filología e instalarme en Barcelona y, desde luego, no podía ni imaginar que un par de años después publicaría mi primer libro y que Enrique, compañero de colección en la editorial Anagrama, sería mi primer amigo escritor.

Nos conocimos en el cóctel del Premio Herralde de Novela de 1985, que entonces se celebraba en el histórico Hotel Colón, frente a la catedral. El hecho de que desde este mismo año el hotel ya no se llame Colón sugiere (¡ay!) que aquel primer encuentro se produjo en una era geológica diferente.

En aquellos años ochenta, en realidad no tan lejanos, nuestros trayectos literarios nos llevaban de barra de bar en barra de bar: al Astoria, al Séptimo Arte, a la Sala Bikini, al Giardinetto… Aquel Enrique era anticonvencional, afrancesado, irónico, elegante, original, descreído, brillante, algo excéntrico, enemigo de toda solemnidad… y lo era cada vez más a medida que avanzaba la noche: más anticonvencional, más afrancesado, más irónico, etcétera. Si alguna vez había adoptado la pose de dandi como un capricho o una estrategia, ese dandismo lo tenía ya tan interiorizado que era inseparable de su persona y de su literatura.

Pero por entonces Vila-Matas no hablaba de literatura dandy sino de literatura shandy. En su fundacional y casi diría programática ‘Historia abreviada de la literatura portátil’ inventó una sociedad secreta, la conspiración shandy, que recorría secretamente los márgenes de la historia y la cultura del siglo XX. A mí, que venía de tradiciones literarias muy alejadas, me tenía fascinado ese universo suyo, tan cosmopolita, tan vanguardista, tan extravagante, tan refinado, tan lúdico. Yo era todavía un escritor a medio hacer y Enrique era ya un escritor hecho, lo que en alguna medida explicaba que él hubiera acertado a construirse un personaje y yo no. Un personaje, por cierto, que parecía salido de sus propios libros, tan estrecha era la comunión que existía entre el autor y la obra.

Pasan los años, pasan los libros, y en los textos de solapa de sus últimas novelas encontramos otra vez al bromista y provocador Vila-Matas que decía haber pasado largas temporadas en el imaginario reino nabokoviano de Zembla. Por uno de esos textos supimos que pertenecía a la convulsa (sic) Orden de Caballeros del Finnegans, que se constituyó con el objetivo de rendir culto al ‘Ulises’ de Joyce. Por otro posterior nos enteramos de que ostenta el “rectorado desconocido” (nuevamente sic) de la Universidad Desconocida de Nueva York. Y por algunos textos más recientes hemos sabido de su incorporación a cierta Sociedad de Refractarios a la Imbecilidad General (más sic), institución tan secreta que ni él mismo conoce a los otros miembros… En su reciente y estupenda ‘Canon de cámara oscura’ inventa un territorio llamado Parte Ninguna. ¿Nos informará en alguna novela futura de las temporadas que ha pasado en tal lugar?

En fin, pasan los años, pasan los libros, pero el anticonvencional, afrancesado, irónico, etcétera, Enrique Vila-Matas, al que conocí hace cuatro décadas en un hotel que ya no se llama Colón, sigue, de un modo u otro, presente en todos sus libros posteriores, que parecen imaginados por algunos de esos shandys que poblaban las páginas de su ‘Historia abreviada’.

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Retrato de Vila-Matas —fragmento final del texto de Antonio Lucas.

V-M en el pasaje Mercader, de Barcelona, escenario de
Canon de cámara oscura

Ahora que la escritura de Vila-Matas se puede ver a lo largo no parece disparatado apuntar que la senda de su obra es rara y feliz. Viene de la literatura/literatura y se estira desconfiada hasta la literatura/artefacto de condición duchampiana, casi ready made. Pienso en libros como Esta bruma insensata (2019), y más aún en Kassel no invita a la lógica (2014) o Marienbad eléctrico (2016). Es así: de los escritores y escritoras de España, Vila-Matas es en este momento el mejor dotado para entrar en un museo muerto de risa. No digo entrar a ver cosas, sino entrar y ser expuesto como amenaza. Es un artista contemporáneo que ha escogido como soporte la literatura y en ella prueba sus fórmulas como un desatado, dudando, dudando siempre, haciendo del desconcierto literatura hasta donde la literatura ya no sabe lo que puede ser. Su genealogía de creador es químicamente bastarda, y divertidísima, y nutritiva. Y burlesca. Y escapista. Y Franz Kafka.

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El universo Vila-Matas. [Masoliver Ródenas en La Vanguardia](5-4-25)]

Hacer una selección de sus obras es tarea muy difícil porque, en total, entre novelas, cuentos y ensayos, suman casi cincuenta y en Vila-Matas no hay novelas malas y buenas. Lo que sí puedo hacer es señalar aquellas donde la libertad creadora está más acentuada y las que iluminan el conjunto de su obra.

En su primera novela, Mujer en el espejo contemplando el paisaje (1971) vemos ya algunas de las constantes. Como en Bartleby y compañía, nos dice que “encontrar palabras cuando todas se han gastado me conducen al silencio”. Y aparece ya el tema del doble. Vamos adentrándonos en las radicales propuestas vila-matianas con un ojo puesto en la realidad y el otro en la invención.

Historia abreviada de la literatura portátil (1985) es, como ya lo sugiere el título, abiertamente ficción y ensayo. Aparece una sociedad secreta conocida como la conspiración shandy (por Tristam Shandy, de Laurence Sterne), fundada en 1924 y disuelta en 1927 por el ocultista, místico y alquimista Aleister Crowly. Rasgos shandy son la sexualidad, la convivencia con el doble, el espíritu innovador o el nomadismo, los viajes. A la secta pertenecieron César Vallejo, Marcel Duchamp, García Lorca o los inventados Berta Bocado y Rita Malú.

Lejos de Veracruz (1995) gira en torno a los extravagantes hermanos Tenorio. Enrique, como su tocayo Vila-Matas, hace de su vida una obra maestra. En Xalapa se encuentra con nuestro común amigo Sergio Pitol, con quien en Veracruz vive una delirante noche de alcohol y locura.

En Extraña forma de vida (1997) el espía tiene que estar preparado para esquivar a sus perseguidores de formas muy extrañas, para establecer una semejanza entre espionaje y creación. El detective, llamado Cyrano por el tamaño de su nariz, espía, entre otros, a Graham Greene y a Salvador Dalí, al que reencontraremos en Ocho entrevistas inventadas (2024).

En El viaje vertical (1999), a Federico Mayol, en sus tiempos miembro del Partido Nacionalista Catalán, su esposa le echa de casa justo cuando acaban de cumplir las bodas de oro. Es así como inicia un viaje –los viajes tan presentes en la escritura y en la vida de Vila-Matas– para huir de la soledad, que le llevará a Oporto, Lisboa y Madeira, un viaje vertical a ninguna parte, es decir, al vacío. En estas dos historias hay cuatro capítulos compuestos exclusivamente por citas, otra de las constantes del escritor.

Con la canónica Bartleby y compañía llegamos al Vila-Matas más radical. El narrador es un rastreador de bartleblys . Escribe un diario que es al mismo tiempo un cuaderno de notas a pie de página, para comentar un texto invisible: penetra en los laberintos del No, la más inquietante tendencia de la literatura contemporánea, el miedo a no encontrar inspiración y sumergirse en el silencio, como Aznavour en La Bohème : “Souvent il m’arrivait/devant mon chevalet de passer des nuits blanches”, “A menudo me encontraba/ frente a mi caballete pasar las noches en blanco”. El narrador busca en la historia de la literatura a aquellos autores que sufren del síndrome de Bartlebty, el personaje del cuento de Melville Bartleby, el escribiente, cuando preferiría no hacer nada. Como Montano de El mal de Montano (2002), “si tuviera que elegir entre la vida y los libros, me quedo con estos, que me ayudan a entenderla”, lo que explica que haya tanto de novela como de ensayo.

Una de sus novelas más celebradas fue París no se acaba nunca (2003), abiertamente autobiográfica sobre su vida de bohemia en el París de los años setenta del siglo pasado, donde redacta un libro en la buhardilla de su casera, la escritora Marguerite Duras, imitando al Hemingway de París era una fiesta. Por falta de espacio me salto novelas como Doctor Pasavento (2005) o Dietario voluble (2008), para llegar a la agitada y divertida Dublinesca (2010). Vila-Matas cultiva el sabor inglés que es, en realidad, el sabor irlandés. En el Dublín de Joyce, su alter ego Samuel Riba crea con un grupo de amigos escritores la Orden de Finnegans y se encuentran en el cementerio de Glasnevin, donde en el Ulises entierran a Paddy Dignam. En Kassel no invita a la lógica (2014), va a Kassel, vía Frankfurt, seguramente a buscar el misterio del universo y a iniciarse en la poesía: “He venido para investigar cuál es la esencia, el núcleo puro y duro del arte contemporáneo”. En Esta bruma insensata (2019), el narrador abandona su caserón de Cadaqués para emprender un largo viaje en busca de una cita perdida, una huida a tiempo que puede ser una puerta abierta hacia la escritura. Se dedica a buscar frases para ofrecérselas a su hermano, un afamado escritor.

Finalmente, y antes de llegar a Canon de cámara oscura, en Montevideo (2022) el protagonista es un escritor de escasa imaginación al que le persigue un cuento de Cortázar, que es con Rimbaud –quien dejó de escribir a los veinte años dejando un único libro, Una temporada en el inferno– el centro de la trama. Vive en cuartos de hotel de París, Bogotá y Montevideo. Junto a Cortázar le acompañan pintores, y escritores como Walter Benjamin, Blaise Cendrars, Valery Larbaud, García Lorca o Aleister Crowley.

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Vila-Matas en su espacio de trabajo  Xavier Cervera

Vila-Matas ha escrito notables libros de cuentos. En Nunca voy al cine (1982) la sombra es la alternativa a las ideas demasiado claras, las sombras que encontramos al entrar en un cine o en la obra de escritores como Paul Celan o Laurence Sterne. En Una casa para siempre (1998) están las distintas voces de un ventrílocuo famoso. En Suicidios ejemplares (1991) los suicidios que no se realizan nunca sirven para unir los distintos relatos del libro, marcados de nuevo por los viajes. En Exploradores del abismo (2007), Vila-Matas está en el centro de libro, “convertido en un disidente de sí mismo”, que busca “la vida que hay en los cuentos”, habla con frecuencia de su escritura y nos dice, fiel a toda su obra: “voy pensando que un libro nace de una insatisfacción, nace de un vacío (…) Seguramente escribirlo es llenar este vacío”. Los autores que menciona (Kafka, Vladimir Holan o Roberto Juarroz), están relacionados con su escritura del abismo. Sophie Calle es la “artista narrativa” por excelencia. Y se nos dice que no quiere indagar más en el abismo del vacío.

Como imprescindible complemento están los ensayos, de El viajero más lento (1992), publicado en el 2011 con el subtítulo El arte de no terminar nada, o Importa tu suerte (2018), un verdadero recorrido por el camino de la libertad creadora.

‘Canon de cámara oscura’: Fragmentos en busca de su autor. La novela Canon de cámara oscura, que acaba de aparecer, podría considerarse un compendio de los rasgos que he ido señalando en la trayectoria narrativa y ensayística de Enrique Vila-Matas. La trama narrativa tradicional, es decir, el argumento, es un hilo muy delgado, y lo conocemos a través de las palabras del narrador, Vidal Escabia, que nos presenta a sus personajes. Su maestro de escritura es Altobelli (apellido del exfutbolista internacional italiano Alessandro Altobelli), del que fue su ayudante, “secretario y sirviente, más tarde buen amigo y después su heredero”. Quiso plagiar el final de los poetas malditos con su voluntad de destruirse. De él aprendió a leer e hizo posible la existencia del Canon de cámara oscura. Violet fue su “novia eterna”, ejerció de novia obediente y hoy es museóloga, “analista de las conexiones específicas en los museos entre los seres humanos y la realidad”. Tiene unos ojos de extrema belleza, pero robóticos, como androides parecen la mayoría de los personajes, que luchan enconadamente por ser humanos. La comisaria de arte Chus Martínez es “una experta en transitar de lo corriente a lo anómalo”.

Vidal Escabia estuvo casado con Aiko, una mujer excepcional que se borró hace tiempo, “al saltar de aquel acantilado en Töjinbö, en Japón” y pensar en ella “me lleva a enfurecerme por el modo en que la perdí”. Pero el personaje con más presencia narrativa es la hija del matrimonio, Ryo, que lleva tres años en Berna y convivió, hasta su separación, con el patán Fritz, quien cree que la tierra es plana, acaba con una camisa de fuerza y pide a la asistenta que se la lleve, “como quien pide otra cerveza”. Ryo, que “siempre fue para mí esencial, el centro del mundo”, anuncia su llegada a Barcelona, y él se ve obligado a despejar su “biblioteca ligera del cuarto oscuro”, donde estuvo su dormitorio. El lector espera con impaciencia su llegada, para poder conocerla personalmente.

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Enrique Vila-Matas   Xavier Cervera 

Pero la auténtica dimensión narrativa se da en el narrador, y es allí donde aparece otro elemento de tensión que surge de la identificación de invención (el plano más divertido del libro) y ensayo; hasta el punto de que los comentaristas tenemos que evitar el error de presentar la novela como esencialmente ensayística. Asistimos a lo insólito, a lo que los amigos de la lógica llaman lo inverosímil. En el narrador, también conocido como el Auctor o el ocupante, no hay rastro de su origen. Su padre nunca existió y la madre nunca nació. Carece de infancia. En realidad su infancia lo son sus años de intensas lecturas, un lletraferit, un tocado por la literatura. La atmósfera literaria proviene esencialmente de Kafka, autor siempre presente. Son muchos los escritores que le acompañan, entre ellos Musil y su El hombre sin atributos , Robert Walser, Cortázar, Sergio Pitol y, por encima de todos, Laurence Sterne y su Tristam Shandy (el de los escritores shandy), como el propio Vila-Matas “osado, libre y divertido”. Le interesa asimismo la filósofa fallecida en febrero de 2024 Camila Cañeque, autora de La última frase, un ensayo construido con las 452 frases últimas de 452 libros. Un libro que acompaña inevitablemente al escritor barcelonés, maestro en coleccionar citas, como las muchas que aparecen aquí. Porque el Canon no es otra cosa que una biblioteca de citas o fragmentos, un gabinete de la escritura. Fue Altobelli quien le transmitió “la ­luminosa idea de la biblioteca del cuarto oscuro”, que no es otro que el dormitorio de Ryo. Habría que añadir las ­numerosas referencias a la música pop. “Si tuviera letra, Love Concert repetiría con insistencia que la noche, como ­Canon in progress, es un viaje rectilíneo abierto y sin retorno, como lo es todo trayecto a Parte Ninguna”.

Especialmente interesantes son las reflexiones en torno a la creación literaria, en torno a la escritura y a la lectura. Asimismo, los numerosos motivos recurrentes, como el hueco en el escritorio de Vidal Escabia, el divertido espíritu de la escalera, la silla giratoria, lo indecible, la fiesta y la noche, que nos transportan al Ulises de Joyce, las sombras y la oscuridad, o los Denver-7.

Y no podía faltar Barcelona, especialmente la zona (que fue su zona) del paseo de Sant Joan y las hermosas páginas dedicadas a la calle Balmes, la terraza del bar Doria, hoy Jamaica, o el pasaje Mercader.

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Vila-Matas, encuentro con Paco Cerdá ——– El País

01

Del niño Enrique Vila-Matas su maestro se burló. Delante de sus compañeros Cadena, Flavià y el resto de la clase, el profesor de los maristas leyó en voz alta su redacción escolar y se mofó.

— Como pueden comprobar, el alumno Vila-Matas nos informa en este texto de la baja intensidad de la luz de la lámpara de su escritorio.

Todos rieron.

El alumno Vila-Matas —flaco, cejas largas, frente ancha, pómulos marcados, raya a la izquierda, grillos en la cabeza asomando por los ojos— debió de bajar la mirada. Había escrito que aquella lámpara dormía sobre sus ojos en vela. Era una metáfora de su estado de ánimo; una imagen de la precariedad económica que sufrían en el piso de la calle de Rimbaud, Barcelona, años sesenta; el mundo de ayer.

Todos rieron.

Pero aquella tarde remota en que su maestro lo llevó a conocer el hielo de la crítica, el alumno Vila-Matas descubrió algo más importante. Sintió, por primera vez, la íntima necesidad de escribir.

Y si la lámpara era débil, mejor buscar en un cuarto oscuro.

Ahora ha llegado ese momento.

02

Hace medio siglo que Enrique Vila-Matas (Barcelona, 76 años) empezó a publicar. Lleva más de 40 libros desde que en la mili, en la trastienda del colmado de un regimiento de artillería perdido en el norte de África, aquel Giovanni Dogo sin desierto ni tártaros escribió su primera novela: Mujer en el espejo contemplando el paisaje.

En Impostura exploró el misterio de la identidad personal, la pasión por ser otro, la necesidad de habitar vidas distintas.

En Historia abreviada de la literatura portátil creó los shandys y aquella conjura secreta de escritores con maleta.

En Suicidios ejemplares cartografió la voluntad radical y última de desaparición que es la muerte voluntaria.

En Bartleby y compañía —su hit— dibujó una constelación de escritores que renunciaron a escribir.

En El mal de Montano llevó al límite la obsesión enfermiza por la literatura como patología incurable y a la vez remedio salvífico.

En París no se acaba nunca Marguerite Duras le enseñó que la escritura es un entramado sin principio ni fin.

En Doctor Pasavento, de la mano de Robert Walser, reflexionó sobre la desaparición del sujeto en Occidente y su empeño por reaparecer.

Entonces Vila-Matas ya tenía un proyecto literario; un trencadís a lo Gaudí. Luego fue sumando teselas y más teselas a su mosaico. Y así tendió un paseo a lo largo del puente que enlaza el mundo excesivo de Joyce con el más lacónico de Beckett en Dublinesca. Y encumbró el arte de no hacer nada con el síndrome Oblómov en Aire de Dylan. Y buscó una frase perdida mientras exaltaba el arte de caminar sin rumbo en Esta bruma insensata. Y se preguntó si la vida solo fuera leer y escribir flaneando por París y otras ciudades en Montevideo.

Todo —siempre— entretejido con la literatura. Una catedral metaliteraria.

Ahora da otra vuelta de tuerca. Regresa al espíritu de sus bartlebys que no escriben y alcanza lo metavilamatiano 25 años después. Su nuevo libro, Canon de cámara oscura, empieza con la muerte de Antonio Altobelli, un lúcido y marginal escritor barcelonés, conocido como El Fracasista, que deja un encargo a su secretario y heredero: debe seleccionar, de entre su inmensa biblioteca, 71 libros y guardarlos en un cuarto mal iluminado. La misión es que Vidal Escabia, así se llama su asistente, conforme un canon literario desplazado, intempestivo e inactual. Un canon disidente. Que discrepe. Que bordee la locura. Que se mueva, oscuro, entre las sombras. Como aquella débil lámpara en los días no azules de la infancia.

Pero hay una duda. Un misterio. El enigma es averiguar si Vidal Escabia es un hombre herido por el amor que siente por su hija ausente o acaso es un androide, un Denver-7 infiltrado entre la gente corriente.

Pero qué más da. Mueran las fajas y la trama. Entra Vila-Matas.

03

El escritor saluda. Bufanda y gorra vilamatianas. Mirada vilamatiana, quizá con más bartlebys en las bolsas. Y algo completamente inesperado: saca de una carpeta unos folios. Unos apuntes, unas citas, un pasaje, el correo de un escritor amigo valorando su última novela, todo va numerado como numerados van estos perfiles. Me los da. Se diría que, así como entra en el mundo de sus autores favoritos en mímesis y simbiosis, ha pretendido penetrar en la forma de este perfil. Vilamatiano, sin duda.

También yo le copio. Le pregunto con una cita.

—Dice Walser: “A menudo cuesta toda una vida librarse de ciertos recuerdos, por muy irrelevantes que sean”.

—Vuelven muchos recuerdos. Vuelve el día que mis padres, en tono trágico, me dijeron: “Tenemos que romper la hucha”. Yo no entendía aquella seriedad. No le daba valor a aquellas monedas que ellos entonces necesitaban y se me grabó el impacto de lo mal que lo pasaron al romperla. Vuelve también una imagen un poco triste: yo, de pequeño, por las aceras de Barcelona, agachado por el suelo con una cinta de metro, midiendo con mi padre la distancia entre farmacias para ver si él podía averiguar dónde cabía legalmente otra farmacia y así poder sacar adelante a la familia después de haberse arruinado. Vuelve el camino de cada día de casa al colegio: ahí está encerrado todo. Tu memoria, tu imaginación; tú mismo. Vuelve también la pregunta que un día me hizo mi padre bajando por el Tibidabo: “Y tú”, me preguntó, “¿qué quieres ser de mayor?”. Yo le dije director de un circo. Podría haberle dicho payaso o equilibrista, pero le dije director.

Es, en cierto modo, lo que viene haciendo Vila-Matas toda su vida: dirigir el circo de todos esos literatos a quienes hace hablar o callar en un largo número que se repite con variaciones Goldberg. Esta vez lo ha hecho con un androide. Y es curioso: cuando todos temen al lobo feroz de la inteligencia artificial, él ha utilizado a un androide como trasunto para hablar de la libertad.

—De todos mis libros, esta es la voz más extrema, el narrador que más fuera está del mundo. No ha nacido. No tiene padres. No tuvo infancia. No tiene recuerdos propios. Y eso me ha dado una libertad que nunca había conocido. Siempre he buscado una voz libre, porque la literatura es la búsqueda de la libertad. A eso aspiro, como el Quijote: a la libertad. Porque me crie en una dictadura y hasta los 27 años viví en ella. Eso marca. Y no quiero volver a ver nada que se le parezca ni lo más mínimo. Sin embargo, este mundo cada vez se parece más a todo aquello.

—¿Estamos perdiendo libertad?

—Sí. Pero escribiendo puedes ser libre. Yo así me siento libre. Aunque a los libres los tachen de locos. Mira el licenciado Vidriera: había de ser un loco para decir lo que pensaba de su época. Lo mismo sucede hoy. Y está bien que así sea: estamos todos tan necesariamente locos que no estarlo sería otra forma de locura. La absoluta rareza sería la normalidad.

04

Otra maestra, otra estudiante y otra lámpara, esta vez encendida. Fue cuando la profesora de literatura le regaló a su alumna adolescente un libro: Historia abreviada de la literatura portátil. Iba dedicado por su autor. “Para Anna Maria, este regalo portátil”. El volumen le cambió la vida a aquella muchacha. Hoy la que dedica libros es ella, Anna Maria Iglesia: periodista cultural, lectora profesional para editoriales y autora de Ese famoso abismo (Wunderkammer, 2020), casi 200 páginas de conversación profunda con Enrique Vila-Matas.

Ahí sueña Vila-Matas con una novela desterrada de tramas, argumentos y realismos y ya felizmente instalada en la frontera; una novela en la que sin problemas se mezclara lo autobiográfico con el ensayo, con el libro de viajes, con el diario, con la ficción pura, con la realidad traída al texto como tal.

Ahí rememora cómo impactaron en su poética del fracaso estos versos de William Carlos Williams: “Ninguna derrota / es enteramente derrota: / el mundo que abre es siempre / un lugar antes insospechado. / Un mundo perdido es un mundo / que nos llama a lugares inéditos”.

Ahí anhela una vida como viaje rectilíneo, sin Ítaca a la que regresar.

Le pido a Anna Maria Iglesia 25 adjetivos que describan a Vila-Matas. Caída la medianoche, cuando ya duermen sus hijas, ella se sienta ante el teclado y responde de un tirón. Y escribe irónico, paradójico, cómico, blanchotiano pero cada vez menos, autoparódico, ambiguo, reiterativo con variaciones, afrancesado (a veces), anglosajón (por momentos), extraño, vital, curioso, indagador, reflexivo pero no pedante, creador de antihéroes tozudos, de ficción sin auto, de ficción pese al yo, burlesco y a la vez tremendamente serio, inventivo, durasiano (de Marguerite) y pitoliano (de Pitol), pero sobre todo walseriano.

Es decir, un híbrido.

El escritor Enrique Vila-Matas, en Barcelona, el lunes pasado.

El escritor Enrique Vila-Matas, en Barcelona, el lunes pasado.massimiliano minocri

05

¿Cómo sería hacer un Vila-Matas de su última novela?

Lo primero, tomar las tijeras y cortar algunas frases suyas del Canon de cámara oscura. Por ejemplo estas:

1. Utopía: mi deseo de que un día escribir y respirar no sean ritmos diferentes.

2. Escribir siempre ha sido tratar de escribir lo que escribiríamos si escribiésemos, aunque no escribamos.

3. La vida de cualquier persona normal es exageradamente ficticia. Todos fingen todo el rato y lo que sucede es que jamás pueden ser ellos mismos, y a su manera están tremendamente encerrados en algo que no existe y que tiene todo el aspecto de, en el fondo, no tener sentido alguno. Hablo del mundo, claro.

4. Vi un mundo que solo era puro vacío, pero a la vez vi que en el vacío no faltaba nada, que éramos nosotros quienes no veíamos nada en él por culpa de nuestra ridícula visión endeble.

5. A veces hay que seguir, como si nada, como si nadie, como si nunca.

06

En ocasiones lo han colocado en las quinielas del Premio Nobel. O del Cervantes. Raro que no tenga el Nacional de Narrativa cuando The Paris Review lo encumbró como uno de los cinco escritores españoles entrevistados en 70 años; lo más parecido a un canon contemporáneo.

Ahora bien: donde Vila-Matas siempre gana es en los laboratorios metacadémicos de la Academia.

En la base de datos que recoge todas las tesis doctorales leídas en España existen al menos 11 tesis sobre Vila-Matas. Sobre su narrativa breve, su escritura intersticial, su poética de la conjunción, su concepto de viaje y fuga, su laberinto especular, su articulismo, su ficción crítica, su poética posmoderna, su aventura literaria como arma política, algunas cosas más.

Entro en la investigación del senegalés Papa Mamour Diop, titulada Enrique Vila-Matas y la búsqueda de la novela total (1973-2007): mestizaje genérico e intertextualidad. Son casi 500 páginas de paseo sesudo por el mundo vilamatiano, pero me deslumbra un concepto: la literofagia.

Literofagia: literatura que se nutre de y para sí misma. Que engulle y deglute literatura para degradar literatura, digerir literatura, absorber literatura, excretar literatura y luego dejar hueco para ingerir nueva literatura. Vila-Matas.

De esta investigación surge un mapa. Un territorio. Su canon ­real. Ese vasto mundo de citas y afinidades que van de Pitol a Tabucchi, de Magris a Sebald, de Bolaño a Musil. Y sobre todo: la angustia existencial de Kafka, el concepto libro-mundo de Joyce, la escritura infinita de Borges, la desaparición del autor de Walser, el paroxismo de la experimentación en Goethe, Shakespeare y Cervantes. Son los puntos cardinales de su atlas.

07

Dice Elias Canetti: “Todo escritor que ha conseguido un nombre y que lo impone sabe que, por este motivo, deja de ser escritor, pues administra posiciones como un burgués cualquiera”.

¿Se ha aburguesado?

—Esa idea de Canetti me crea un sentimiento de culpa. No puedo evitarlo. Hay tantas novelas rechazadas de genios que nos hemos perdido… Y en cambio yo, como otros, ocupo un sitio. Ahora bien: lo horroroso es si evitas el riesgo para conservar tu sitio burgués. Porque sin riesgo no tiene sentido la literatura. En este libro está muy presente el concepto de la oscuridad. A ello me llevó una idea de Maurice Blanchot. Él decía que la oscuridad que vemos disimula la oscuridad que hay detrás. Solo hallamos alguna luz, si es que la hallamos, avanzando entre tinieblas. Justo eso es escribir: un oficio de tinieblas. Cuando avanzas en la oscuridad vas a tientas. Te arriesgas. Vives.

¿Y el miedo al fracaso?

—El fracaso es inherente a la escritura. Y no es ninguna tragedia. Al contrario: el fracaso es digno. Es más: puede incluso superar al triunfo. Mira: una vez pude entrevistar a Dalí y me respondió algo que solo ahora he comprendido: “La obra perfecta es la muerte”.

08

La obra perfecta de un bartleby que no escribe, como Vidal Escabia, es componer un canon literario desplazado, intempestivo, inactual. De los libros que el narrador va salvando en su cuarto oscuro aparecen nombres consagrados: Ovidio, Cervantes, Melville, Montaigne, Musil, Walser, Sterne, Zweig, Kaf­ka, Canetti, Calvino, Fitzgerald, Barthes, Ribeyro, Martín-Santos, Handke, Banville, Tavares. También surgen otras plumas más periféricas que entran o aguardan su turno para alcanzar el canon oscuro, como Alfred North Whitehead, Ryoko Sekiguchi, David Markson, Alberto Savinio, Harold Duché, Sergio Chejfec, Valeria Luiselli, Pablo Martín Sánchez o Camila Cañeque, otra cazacitas con sus 452 últimas frases antes del verdadero final.

09

Página 199. Vila-Matas habla de un concepto japonés intraducible: ikigai. Más o menos quiere decir la razón de vivir, la razón de ser, lo que hace que una vida valga la pena ser vivida. El ikigai se da cuando se alinean cuatro aspectos:

Lo que te gusta.

Lo que haces bien.

Lo que te da una recompensa.

Aquello que el mundo necesita de ti.

Oír hablar a Vila-Matas en la trastienda de una librería, oírle decir que solo el amor y la literatura dan sentido a la vida, oírle decir que ama tanto a la literatura que experimenta con ella un sentido de pertenencia hasta identificarla consigo mismo y con su vida, oír hablar delante de una carpeta al niño mayor que hace setenta y pico años ideaba historias imaginarias con sus soldaditos de plomo y que aún sigue con los grillos asomando por esos ojos en vela, oír todo eso es entender su ikigai: escribir y respirar.

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Persistencia de los raros (Proust, Kafka, Borges…), una editorial de Javier Serena en Cuadernos Hispanoamericanos.

No es por un afán erudito ni por sofisticación, pero lo cierto es que autores calificados alguna vez como raros, aparecen con frecuencia en las páginas de esta revista. De hecho, al menos dos dossieres les han sido dedicados: el que titulamos Los raros —en el que se abordó aquel grupo conocido con ese nombre y que incluía a los uruguayos Felisberto Hernández, Mario Levrero o Armonía Sommers— ; y Desde los márgenes —que exploraba algunas escrituras poco convencionales, alejadas de las literaturas más centrales y canónicas—.

Y, además de esos dossieres, son habituales los textos que indagan en libros o escritores que han pasado inadvertidos, o que no han gozado de suficiente repercusión, como en la sección Segunda Vuelta, reservada para relecturas de obras que en su momento no tuvieron la atención debida, en muchas ocasiones por no encajar con el gusto de la época y proponer fórmulas que podían resultar desconcertantes.

Ante esa recurrencia por citar algunos nombres no tan comunes, o que no fueron leídos en exceso y de repente sí lo son, puede despertarse la sospecha: ¿se debe al deseo de mostrar un conocimiento oculto y rebuscado, por una voluntad de distinguirse de un lector medio, por sumarse a una reparación tardía que quizá resulte desmedida, o se trata de una reivindicación sincera, que intenta enmendar olvidos o mostrar nuevos enfoques sobre libros o autores que siguen vigentes años después de haber sido publicados? La desconfianza ante las referencias a autores o libros no tan populares o castigados durante tiempo con el desinterés puede ser comprensible, pero, si atendemos a la presencia que tienen en estas páginas de acuerdo al criterio de nuestros colaboradores, hay una evidencia: son esos autores raros, los que no se integran en el canon, a veces imperfectos o irregulares, aquellos que rehúyen de una escritura más corriente y normalizada, quienes muchas veces hacen propuestas más genuinas, y así contribuyen a la necesaria renovación del tedio de la literatura conocida, y al cabo del tiempo despiertan todavía la curiosidad de los lectores por la singularidad de su senda única.

Es, quizá, esa condición la que mejor caracteriza a los escritores que alguna vez fueron considerados raros. No tanto una extravagancia superficial, sino una incapacidad de adaptarse a fórmulas dadas. Y, si esa necesidad de guiarse por instintos propios es algo que pudo dificultar su aceptación en su momento, en cambio garantiza su duración y hasta su presencia progresiva, porque esa resistencia esconde una voz más consistente, limpia del murmullo común de las tendencias de una época en que los autores se disuelven poco a poco con el transcurrir de los años, hasta perderse en la irrelevancia y el silencio definitivo.

En su ensayo Fallar otra vez, Alan Pauls aborda ese rasgo de algunos autores que han experimentado esas trayectorias, apuntando que es en la aparente persistencia en un error en lo que se sustenta algunas de las escrituras que siguen intactas con el tiempo. Un error —o una disidencia o una rareza— que puede ser una anomalía formal, o una propuesta contraria a las seducciones del supuesto buen arte narrativo. En su ensayo, alude a autores cuya lectura está lejos de caer en el olvido, por mucho que fueran rescatados, o poco o mal leídos en su momento. En Proust, la frase larga y compleja se propone como el mecanismo de indagación en el tiempo, alterando la lógica causal de la novela por la asociación de la memoria, lo que supuso una novedad que rompió con toda la tradición decimonónica. Kafka, por su parte, opta por extremar el aburrimiento hasta exasperar el absurdo burocrático, y es a través de ese artefacto inverso a los artificios de una trama sorpresiva, como aflora una inteligencia y un humor que no caduca.

En nuestro ámbito, hay también incontables casos. Borges, tan incontestable y ampliamente citado, fue un autor de escasos lectores durante décadas, quizá porque el gusto común no estaba preparado todavía para sus especulaciones filosóficas y sus juegos posmodernos o el carácter lúdico que escondía el clasicismo extranjero de su prosa. Los españoles Javier Tomeo o Enrique Vila-Matas, por ejemplo, no fueron populares en su aparición, sino poco a poco, como si sedujeran de manera anticipada a los lectores que cada vez desconfiaban más del lirismo y el costumbrismo y la previsibilidad de la novela. Si César Aira pudo provocar extrañeza en sus primeros libros, ahora cuenta con lectores que esperan sus entregas, casi como un grupo de devotos que hubiera descubierto su valor y lo defendieran de su posible esquinamiento. Y si Sergio Pitol en su El arte de la fuga publicó un artefacto difícil de clasificar —¿ensayo, crónica, novela?—, también trazó una senda que luego se ha explorado de manera habitual.

Contrarios a los cánones, a las modas, a las pautas establecidas, y escarbando en un espíritu y una intuición genuina, todos estos escritores raros nacen sin lectores, y, superada esa indiferencia pasajera, son leídos sin importar la fecha de su aparición, contemporáneos ya en adelante, y por eso son ellos, los que evitan el agotamiento de los géneros y renuevan la curiosidad y el entusiasmo, los que marcan siempre el porvenir y el presente de esta revista.

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Tabucchi en el patio de Letras [Café Perec]

María José de Lancastre (Ze)

Fue un maestro en transformar la vida en literatura, dice Paolo di Paolo hablándome de Tabucchi, y me pregunta si creo que en el mundo actual sigue estando claro “qué es la literatura”. No sabemos qué es un libro, le digo, pero cuando por casualidad hay uno, lo reconocemos enseguida. Estamos en el patio de Letras de la Universidad de Barcelona, donde va a celebrarse la Giornata Internazionale dedicada a la obra de Tabucchi. Colabora el Instituto italiano de Cultura. Los participantes y asistentes están ya llegando al aula 113: María José de Lancastre, Michele Tabucchi, Carlos Gumpert, Francesco Luti, Perla Martinelli, Gennaro Serio, Pepi Baulo y Susana Castaño representando a la editorial Anagrama…

Abre Di Paolo su ponencia hablando de un post-it que una tarde vio que Tabucchi, de su puño y letra, había pegado en la mesa de la cocina de su casa de Vechiano. La nota decía: “¿Dónde está Céline?”. Y Di Paolo vio en la pregunta (o lo que fuera) el signo de una relación con la tradición literaria, una conversación con los ausentes, con los grandes y no tan grandes autores del pasado: “No era Tabucchi un posmoderno, como algunos decían. Lo que en él había era ese convertir la vida en literatura, y sentir precisamente el peso de las resonancias”    

Más tarde, Francesco Luti narra con afectuoso humor los días geniales de Florencia en los que fue alumno y amigo de Tabucchi. Y a su intervención sigue la de Gennaro Serio, autor de Notturno di Gibilterra, que se basa en un fragmento de Nocturno hindú (“Qué hacemos en estos cuerpos, tal vez viajemos en ellos”) para señalar que la recurrencia casi iconográfica y casi única en Tabucchi es el viaje, el viaje por mar. Nada que deba extrañarnos, pues en los grandes escritores el repertorio poético suele ser limitado y redundante: un “piccolo naviglio” en el mar como alegoría de un sentimiento indefinido de melancolía, de sueño, de fragilidad, de espera. Para Gennaro Serio, el viaje marítimo se halla por todos lados en Tabucchi, en Dama de Porto Pim, en Réquiem, y siempre parece invocar la Oda marítima de Álvaro de Campos, el heterónimo de Pessoa. Una Oda tan adorada por Tabucchi que acabó traduciéndola al italiano.

Tras otras ponencias, Pepi Baulo y Susana Castaño recuerdan el hallazgo glorioso en la feria de Frankfort, por parte de Jorge Herralde, del librito titulado Dama de Porto Pim. Tanto le fascinó aquel sorprendente “Moby Dick en miniatura” que le escribió una carta a su desconocido autor (“Le felicito, una autentica maravilla…”) y le llegó de éste una afilada respuesta emocionante, bellísima, que sería el inicio de una gran relación.

La Giornata la cerró María José de Lancastre con unas diapositivas, o sobria Fotobiografía de su marido. Pero es un decir que la cerró, porque, al caer ya la noche en el aula, se percibía, como un sentimiento común o impresión general, que la relación de Tabucchi con Barcelona había sido y sigue siendo una grandísima oda marítima, un viaje por un mar abierto, siempre reiniciándose, toujours recommencée.  

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Repentinamente Jaeggy

1

 

Quizás no sea una casualidad que veamos algo en un momento concreto.

Ayer de pronto sentí, misteriosamente, que tenía que desviar la mirada hacia una presencia gélida, apenas visible, como si no quisiera ser captada. Desvié la mirada, y allí estaba, como si ya lo supiera yo, allí estaba la Señorita Ocasión, la que tiene alas en los pies y pasa veloz y dice en italiano “Io sono l´Occasione”, la que pasa ágil y sin tocar tierra, la que pasa por ahí, pasa para todos los mortales, y cada uno de ellos, sin excepción, la ve en un solo momento en concreto, un momento en la vida.

2

Los rumores dicen que, si la Ocasión se junta con alguien, no está segura de ser ella quien habla. Por eso, en las entrevistas escasas que concede, todo se enrarece. Aunque a la vez todo en ellas se vuelve extraordinario. Ver la entrevista con Andrés Barba, con las arañas como tema central.

Los rumores aseguran que cuando, por ejemplo, soñó que flotaba en un torbellino del Infierno de Dante, fue una de las más grandes alegrías de su vida.

Observo ahora que, para hablar del enigma de la súbita aparición de ayer, he utilizado el comodín “de pronto” que parece que fuera un adverbio pensado para los perezosos, porque remite a la casualidad y evita tener que explicar los sucesos y recuerdos personales que antecedierona la aparición en realidad nada casual, de la Señorita Ocasión, llamadla Jaeggy. Son sucesos y recuerdos que normalmente se consideran “inaccesibles”, por lo que renunciamos a investigar de cuáles puede tratarse, salvo, como es mi caso esta tarde, queramos coincidid con la misma Jaeggy, para la que “lo interesante es topar con dificultades, porque el placer de escribir está en resolverlas”

3

Me han preguntado muchas veces cómo distinguía a los escritores verdaderos de los otros. Simplemente son libres, suelo decir, hacen lo que quieren, no les preocupa nada lo que puedan comentar los imbéciles de todo cuanto ellos llevan a cabo. Porque, a fin de cuentas, imbéciles los hay en todos los círculos, y solo se trata de oír lo que dicen y entenderlos y luego crearse un mundo en el que los idiotas no entren. El punto de vista diferente, que en muchas ocasiones habita en los escritores verdaderos va siempre más allá de lo razonable y viene cubriendo las mejores etapas –a veces, las obras enteras– de los más únicos, singulares, grandes, verdaderos escritores.

No he acabado siquiera de decirme esto cuando vuelvo a ver, aunque esta vez reconstruido en mi imaginación, el momento en que desvié ayer la mirada hacia una dirección que apenas entraba en mi punto de vista. Y, aun así, por ser una reconstrucción de algo ya ocurrido, he vuelto a ver cómo pasaba la Señorita Ocasión, ahora cruzando veloz por mi mente y repentinamente transformada en una vertiginosa verdadera escritora que nunca había tocado tierra firme. Casi volaba y me ha parecido que, con su punto de vista diferente a todos, cruzaba por mi mente como si fuera ese gato suyo del que siempre dice que está en otra parte.

–¿Está muerto? –le pregunta Guillermo Piro en una entrevista de este libro.

–No, no está muerto, es de otro mundo –dice Fleur Jaeggy.

4

En los últimos tiempos, hay un pensamiento de Paul Valéry que recuerdo con frecuencia, como si fuera ya o se estuviera convirtiendo en mi lema preferido: “Los demás hacen libros, yo hago mi mente”. Y bueno, hará unos segundos, estaba literalmente haciendo mi mente cuando ha cruzado por ella, con aparición fulminante, el cometa Jaeggy. Y, al verlo pasar, he recordado y aún celebro la sorpresa de haber dado con este recuerdo que segundos antes aún se encontraba entre los inaccesibles: el recuerdo del día en Barcelona, un 25 de agosto de 2009, en el que, no habiendo leído todavía nada de ella, abrí distraídamente Los hermosos años del castigo y me quedé de piedra, de piedra antigua de Herisau, del cantón suizo de Appenzell.

Ya las primeras líneas me dejaron la impresión de haber recibido, en muy breve tiempo, una lección inolvidable y absoluta de gran literatura. Pero a la vez me dejaron muy tocado, tal como me ocurre cuando paso a vivir en el glacial territorio de Jaeggy de las frases simples que sin embargo me abren a extrañas emociones en gélidos remansos tropicales. Remansos, sí. Recovecos como los que uno encuentra en la Suiza germánica, sobre todo en las reprimidas pequeñas ventanas con franjas blancas y las laboriosas y ardientes flores en los balcones de Appenzell, pura lujuria contenida.

5

Cuando en agosto de 2009 leí aquellas primeras líneas de Jaeggy, se estaba cerrando una década en la que mi vida se había visto dominada por la aproximación de la sombra interna de Robert Walser.

Abrí y leí:

“A los catorce años, yo era alumna de un internado de Appenzell. El lugar por el que Robert Walser había dado muchos paseos cuando estaba en el manicomio, en Herisau, no lejos de nuestro instituto. Murió en la nieve. Hay fotografías que muestran sus huellas y la posición del cuerpo en la nieve. Nosotras no conocíamos al escritor (…) Es una verdadera lástima que no hubiésemos conocido la existencia de Walser, habríamos recogido una flor para él. También Kant antes de morir, se conmovió cuando una desconocida le ofreció una rosa”.

            6

Es que es del otro mundo, respondió tajante una amiga a modo de excusa cuando alguien le preguntó porque era Jaeggy tan única. Esta respuesta de la amiga podría decir mucho de su obra de no ser porque ésta es inclasificable en el mejor sentido del adjetivo. Pero no por eso la respuesta deja de acercarse al espíritu de Jaeggy, forma parte de estos latigazos libres como el viento, giros habituales en su escritura y que se dan en su obra a menudo, con escalofrío incluido.

En su Adelphiana 2 (Öde), cariñosa y a veces aterradora aproximación al mundo de Robert Walser (“Ahora él está en Herisau. En contra de su voluntad. Ingresado para siempre. No escribe más”) están algunos de esos latigazos, la mayoría en términos germánicos, especialmente términos compuestos. Nada demasiado extraño en Jaeggy para la que, según le dijera a Enric González, el alemán es su lengua perdida, es la lengua que le ha precedido, el idioma de sus muertos, el idioma que vuelve. 

La técnica no es tal técnica, porque a la misma velocidad que aparece desaparece, es la técnica más inimitable, la que es tan veloz que borra sus huellas por lo que en modo alguno se la puede atrapar. Aunque sí puede uno sentarse y analizarla, aunque de ella no quede nada y al mismo tiempo todo. Analizarla observando cómo, primero, su prosa crea un silencio radical –su prosa se planta, por decirlo de alguna forma– para luego, sin salirse del silencio, cargar la atmósfera con una tensión de bomba de relojería a punto de estallar. Tras esto, a medio camino todavía entre la paz y la explosión, algo acaba siempre siendo infalible: deja caer una frase que nos desconcierta, que cambia el ritmo, porque es del otro mundo, del universo único de Jaeggy, si acaso relacionado con los de los otros cuatro componentes del quinteto de autores que llegaron del frío y al que a mí me parece que ella, aunque sin perder su inconfundible individualidad, pertenece: Dickinson, Beckett, Kafka, Robert Walser. Porque es esencial y despojada de toda distracción ajena a lo que desea contarnos, como Emily Dickinson; controladora sabia de las pausas estratégicas, como Samuel Beckett; silueta pensativa de todos los umbrales, como Franz Kafka; demente ingresada para siempre, como Robert Walser.

7

 A los componentes del quinteto (recuerdo el título de un film inglés que me tuvo de niño obsesionado: El quinteto de la muerte) parece unirles, por encima de todo, una cierta tendencia a adscribirse a la expresión “mantenerse apartado”, divisa tácita de aquel tipo de escritor que esencialmente es un ser “fuera de todo”, lo que conlleva sus ventajas, especialmente la de facilitar la persecución obsesiva de una obra muy personal, implacable y sin fin.

8

Adentrándome justo ahora en el área de los recuerdos inaccesibles y, en la geografía de estos, buscando la de aquellos sucesos que podrían estar detrás de la aparición fulminante ayer de Jaeggy, es decir, voy viendo aclararse la bruma de los laberintos previos al momento “casual”, voy haciendo más posible lo teóricamente imposible: explicar por qué no hubo casualidad cuando tuve que desviar ayer la mirada, en aquella calle atronadora que aullaba a mi alrededor y en la que no hubo en realidad la menor casualidad cuando pude ver a la Ocasión pasar.

Repentinamente Jaeggy.

9

Robert Walser había muerto sobre la nieve, por lo que yo siempre había imaginado al manicomio de Herisau rodeado de prados y abetos verdes nevados. Ese día en el que lo visité, sin saber que antes Jaeggy (una total desconocida entonces para mí) había hecho ya ese viaje, parecía estar claro que la nieve, con su ausencia, era lo único que no estaba ayudando a que todo cuadrara a la perfección en aquella incursión al montículo del manicomio, convertido en los nuevos tiempos en “hospital psiquiátrico”.

Me llevaban de visita al hospital, eso es lo que más recuerdo. En cuanto empezamos a ascender por la carretera hacia el montículo y el sagrado reloj que parecía dar la hora a todo Appenzell, me quedé por un momento extasiado contemplando los inesperados, repentinos copos ligeros detenidos en el aire, golpeando el cristal de la ventana del coche.

Años después, todavía bajo el efecto Walser, leería las páginas de Jaeggy sobre su retorno a Appenzell de la misma forma que un asesino acababa volviendo al lugar del crimen. Fue ella a ver el internado de señoritas de su novela y se enteró de que había pasado a ser una clínica para ciegos. Y después, como ese antiguo internado estaba muy cerca de Herisau, fue a ver cómo era el sanatorio mental en el que había pasado Walser tantos años de su vida, ingresado para siempre. Era un lunes de Pascua, y de entrada sólo vio a una enfermera que le dijo que no la podía atender demasiado porque estaba muy ocupada. Como no había nadie más, compró unas tarjetas postales. De pronto, la enfermera se volvió gentil y acabó presentándole a algunos pacientes, con los que pudo hablar.

“Fue como si yo hubiera hecho un viaje tras las huellas de Walser, buscando los árboles que le vieron morir”, escribió Jaeggy después de la visita que a mí llevó a entrar en su mundo implacable y sin fin. 

10

Una vez dije, en un segundo viaje a Herisau (cuando ya sabía que Jaeggy había estudiado en el Bausler Institut de Appenzell, a cuatro pasos del allí), que Fleur era alguien que iba siempre a lo esencial y, como si tuviera bien aprendida la involuntaria lección de Kafka, conseguía muchas veces en una sola página, y en otras en una sola línea, que se hiciera visible de golpe, a modo de repentina revelación, la estructura desnuda de la verdad. Ese pavoroso desvelamiento siempre llega acompañado de la inevitable crueldad, jamás desligada de la rutinaria, aunque secreta, vida de la verdad.

Tal vez por eso se dice a veces de esta escritora que es tan peligrosa. Pero es que su arte del despojamiento, al dejar sólo en pie lo esencial, no tiene a veces salida más natural que la inteligencia y la crueldad. La frialdad la añade la propia autora, y acaso sea éste el rasgo suplementario más destacado de su estilo; un rasgo que acude siempre sigiloso a su cita con las frases simples –algunas tan terribles como sencillas– y que, en el fondo, muy en el fondo, es también su trazo estilístico más divertido. Porque Jaeggy ríe, sabe también reír.

“Una cierta glacialidad también revela sentimientos”, dijo en cierta ocasión, la única vez que la vi personalmente. Asistimos los dos, junto a otros tres ponentes, a un homenaje a Walser en la sala de actos de la embajada suiza de París. Ahí apareció esa risa de fondo que es su trazo más divertido. Cuando uno de los ponentes dijo, imitando a Walser, que afuera en el patio, la nieve caía en copos grandes y húmedos, ella no pudo contener la risa. Para colmo, sobre el escenario otro ponente, alguien sin duda de espíritu boy scout, había instalado una tienda de campaña, se suponía que para que el público, principalmente helvético, comprendiera el sentido de las caminatas del autor de, entre otras obras maestras, El Paseo.

Hice verdaderos esfuerzos para no cruzarme una mirada con Jaeggy que, a mi lado, murmuraba “serán mamarrachos”, lo oí perfectamente. A pesar de mis esfuerzos, se produjo ese cruce de miradas, no hubo forma de evitarla y hoy, ahora, recuerdo la felicidad inesperada de risa absoluta que siguió, como un oasis de calor en pleno Ártico, como un aviso que, en aquel encuentro único con la Señorita Ocasión, hubiera venido a recordarme que en Jaeggy, después de todo, su rasgo más definido era esa dolorosa, trágica huella de humor glacial que a la larga deja siempre una rara marca de agua veraniega.

Nada más encontrar en la embajada suiza aquel oasis de calor en pleno Ártico, vi venir que de aquello a que apareciera una fulminante Jaeggy en el horizonte había ya un solo paso. Y así fue, ha sido, sigue siendo, “io sono l´Occasione”. La hemos visto pasar con su paso único, ágil y sin tocar tierra firme, pasar por ahí y pasar para todos los mortales. Y algunos hasta hemos comprendido que su aparición ayer fulminante podía ser cualquier cosa, menos casual.

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Pequeño gran Gatsby. [Café Perec 4 de marzo 2025] por Enrique Vila-Matas

A muy pocos días de que se cumplan cien años de su publicación, regreso a El gran Gatsby, de Francis Scott Fitzgerald, a su obsesión por el pasado irrecuperable y por aquella luz verde de baliza al otro lado de la bahía. 

“Una de las novelas más eminentemente ‘releíbles’ jamás escritas”, dice Rodrigo Fresán en El pequeño Gatsby, el librito que en sus intensas notas arroja luz verde sobre la ficción de Fitzgerald, sobre la alegría desesperada de las fiestas, el ruido mafioso, la lucidez de John Cheever, los horrores de la Gatsbylandia cinematográfica, sobre el sinsentido de los que vieron a Gatsby como “un payaso que se precipitaba hacia la muerte” y al libro como “un literario merengue de limón”.

Reúne El pequeño Gatsby todo tipo de notas e informaciones sobre esa obra maestra del gran Fitzgerald que asocio a unas palabras de Nick, el parcialmente involucrado narrador de la historia: “Todo el mundo se cree poseedor de por lo menos una de las virtudes cardinales. La mía es ésta: soy una de las pocas personas honradas que he conocido en mi vida”

No porque Nick se presentara así, viajé confiado alguna vez con él hasta el fin del mundo. Preferí siempre ir de la mano de los dos, del Nick fiable y del no fiable, aunque ya sólo fuera por mostrar mi acuerdo con la idea de Fitzgerald de que una inteligencia de primera clase es la capacidad para mantener dos ideas opuestas en la mente y al mismo tiempo conservar la capacidad de funcionar.

Es evidente que esa célebre idea no sólo contiene una magistral definición de la ironía, sino que no puede estar más enraizada en El gran Gatsby y constituye la clave del tono tan atractivo y feliz de la prosa que Fitzgerald, a sus 25 años, desplegó en la que para muchos es la mejor novela escrita en inglés del pasado siglo. Aunque no siempre fue tan bien vista porque, cuando se publicó hace cien años, casi nadie supo ver en qué consistía verdaderamente su sutil genialidad. Y el propio Fitzgerald llegó a comentar que de todas las reseñas de El gran Gatsby, aun las más entusiastas, “no había un sola que supiera mínimamente de qué iba el libro”

¿No es asombroso? ¿No será que el mundo ha estado siempre lleno de personas sin talento que se han dedicado a juzgar a los que sí lo tienen? Por suerte permanece en pie, por ejemplo, lo que, en estas mismas páginas, hace trece años, dijera Juan Gabriel Vásquez acerca de la novela de Fitzgerald. Una de las claves sería el hecho de que, si bien Gatsby era el tema de la novela, el personaje principal no era él, sino Nick, un observador que, como él mismo nos dice en el libro, se encuentra “dentro y fuera, simultáneamente encantado y repelido por la inagotable variedad de la vida”.

Tal vez porque narrador y autor son dos figuras distintas, he ido tantas veces con ellos, confiado y desconfiado, armonizando dos ideas opuestas, hasta más allá del fin del mundo. Y tal vez por eso me asombro cuando encuentro tantas novelas nuevas que se limitan a hablar de la experiencia personal, renunciando a aumentar sus “yo” y a ensanchar la realidad.

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FABULOSAS IMPOSTURAS,un ensayo de Fabienne Bradu. [México, 2024]

La escritora Fabienne Bradu está harta del egocentrismo en la literatura, es decir, de los relatos que se limitan a hablar de la experiencia personal, por ello se adentra al juego de los impostores, de aquellos que muestran sus otros yos, por ejemplo, Matías, personaje de Luigi Pirandello que, al ser declarado muerto, aprovecha para iniciar una nueva vida o Gabriel de Guilleragues, quien difundió una ficción epistolar entre una monja y un caballero que fue tomada como verdadera.

Para la crítica literaria, las imposturas convierten el término identidad en algo lúdico, quitándole el tópico lastimero que hoy tiene para muchos creadores. Algunas lecturas que atraen a Bradu por las múltiples personalidades de sus personajes se reúnen en el libro Fabulosas imposturas (Bonilla Artigas Editores, 2024), obra que también es una defensa de la imaginación, arma que puede convertir a cualquier persona en un ser rebelde.

¿Este libro surge de un hartazgo que le preocupa?

Ese hartazgo no es de ayer, lo ubico a partir del movimiento de autoficción y después del #MeToo que acarreó muchas confesiones, unas más necesarias que otras. Mi condena no es global, no es radical, pero sí noto que en la actualidad literaria hay un exceso del yo.

Si uno piensa en el movimiento del ombliguismo (encogerse en una posición fetal mirando y protegiendo el ombligo) nos asfixiamos y perdemos, sobre todo, la imaginación. Pensé en las imposturas que son invenciones de otros yos y las vi muy gozosas porque responden a la necesidad de ensanchar el yo. Me pareció un buen contra ejercicio a la reducción del yo narcisista. Los egos a veces hablan más que nosotros o se ponen por delante o son más importantes en la vida de la crítica literaria: yo escribí, yo dije primero. Uno se cansa de eso.

Otro impostor que retoma es Jusep Torres Campalans, pintor ficticio, inventado por el escritor Max Aub, quien habría sido no solo amigo de Picasso sino, también, el verdadero inventor del cubismo. Para alimentar el mito de su existencia verdadera, Aub realizó en un fotomontaje y también creó pinturas que terminaron en salas de museos con críticas hechas por algunos de sus amigos mexicanos: Jaime García Terrés y Carlos Fuentes.

Ignorancia, ingenuidad o maestría: ¿por qué creemos esas imposturas?

Depende del talento del constructor. El caso de la monja portuguesa conlleva un problema interesante: un hombre imaginó la pasión de una mujer. Eso se ha prestado a discusión, a dudas, de si un hombre puede colocarse en la piel de un personaje así. Pienso que sí. Otros ejemplos los tenemos con Julio Cortázar en Rayuela, él creó el personaje de La Maga y puedo casi afirmar que todos los hombres que han leído Rayuela se han enamorado de ella, sin embargo, es alguien que salió de la imaginación de un hombre.

Nos creemos las imposturas porque existe una voluntad de creer, por más que nos demuestran que la monja portuguesa es una creación literaria, veo a autores como Rilke tan empeñados en decir que ella existió y que ésa es la pasión femenina, o Philippe Sollers por mencionar a un autor más contemporáneo. Pero ¿para qué combatir con la verdad esa construcción? No sé si importe mucho la prueba.

Max Aub dijo que en la creación del pintor catalán Torres Campalans le fue mucho más difícil deshacer el entuerto que construirlo. Además, tener la complicidad de sus amigos en México fue un juego en el que se divirtieron muchísimo. Esa dimensión del juego y del goce es la que aprecio en las imposturas literarias, no me meto en las demás que son fraudes, estafas y plagios.

Aub hizo envejecer a su impostor e incluso le organizó exposiciones: ¿se trata de un desdoblamiento del autor?

Yo diría multiplicación, él se multiplica, se hace otro, otrarse diría Fernando Pessoa quien inventó esa palabra, es volverse otros infinitamente. Lo genial de Max Aub fue no solamente haber inventado la figura del pintor sino haber pintado la obra y que hubo gente que compró los cuadros, se expusieron en México, en Nueva York y después los pidieron en España.

Esos escritores, actualmente ¿dónde están en nuestras letras mexicanas? Los extraño porque creo que nos hemos vuelto demasiado solemnes y egocéntricos.

Vila-Matas ha sido señalado por retomar citas y apropiarse de la identidad de algunos escritores, ¿eso ya está asimilado?

En literatura nada está superado, cuando funciona una estratagema o una escuela o como quiera llamarlo la crítica, nunca desaparecerá. Tendemos a decir: “en poesía, escribir versos alejandrinos ya no se hace, porque el verso es libre”; pero hay quienes siguen escribiendo alejandrinos maravillosos. Es decir, no es la forma la que determinará si algo es válido o no, sino el manejo de esa forma, de utilizarla para un proceso determinado.

Vila-Matas, en ese sentido, es un maestro del malabarismo literario. Lo admiro. Su primera novela se llama Impostura y descansa en una idea muy sencilla: que el narrador de un libro no es el autor y, por lo tanto, el autor a través de su narrador comete una impostura haciendo creer que ese yo que habla en el narrador es el autor. Eso es algo que tendemos a confundir siempre, leemos En busca del tiempo perdido de Marcel Proust y decimos: “es Proust el que está hablando”, por más que él haya escrito ensayos diciendo: “no, mi yo literario no soy yo, no es mi yo biográfico, es una construcción que me contiene a mí, pero que también es ficticia”.

Esos juegos los practica Vila-Matas de una forma magistral, se le reprocha de que se apropia de frases, de citas de otros autores, que las transforma y las hace suyas, pero lo hace tan bien, con tanta libertad que es sin maldad alguna. Algunos sí se indignan porque dicen que son plagios, pero no, un plagio no corresponde a un juego, es una mala acción de apropiarse de una idea, una cita, un párrafo de alguien más.

Bradu dedica un capítulo a la novela El adversario de Emmanuel Carrère, donde el protagonista finge durante más de diez años una vida de médico hasta que, no pudiendo sostener más la mentira, mata a su familia.

¿Hay una competencia por saber quién desborda mejor la imaginación, el autor o el protagonista?

La novela partió de un caso real, de un hombre que fingió ser alguien durante 17 años, ahí el factor tiempo impresionó mucho cuando se descubrió el caso. Fingió ser un doctor que pertenecía a la Organización Mundial de la Salud, en Ginebra, y engañó a todo el mundo incluyendo sus padres, su esposa, sus amigos más cercanos y vivía pidiéndoles ahorros que él podía ubicar en inversiones favorables. Cuando no pudo sostener la impostura acabó matando a sus seres queridos e intentó suicidarse, pero se equivocó de medicamentos. Fue un juicio muy sonado en Francia y esa historia retoma Carrère.

Caemos en la anterior pregunta ¿y por qué todos le creyeron? Nadie cuestionó. La gran pregunta que se hizo Carrère fue ¿qué hacía ese hombre, en esas horas y días? Él contó que se estacionaba en las autopistas y leía. En efecto, tuvo una gran habilidad para mantener esa ficción de vida.

Es interesante la rivalidad entre la capacidad de imaginación de ese señor real para inventar y sostener su impostura y la del escritor para recrearla y tratar de entenderla. ¿Cómo un escritor se pregunta o trata de entender a otro a través de un personaje? ¿Cómo alguien que no es un impostor puede comprender el motor que hace girar la imaginación del impostor?

La obra de Carrère que no es exactamente una novela sino un relato siguiendo el juicio del impostor, nos descubre un poco todas las cuerdas de su juego y es fascinante tanto la realidad del personaje como las discusiones que Carrère lleva a cabo consigo mismo para la reconstrucción del caso. Es cierto lo que dices, es una imaginación que rivaliza con otra ¿y quién sale victorioso de ese combate? El lector juzgará.

Luigi Pirandello, autor italiano y ganador del Nobel de Literatura en 1934, es otro impostor que celebra Bradu. Escribió la novela El difunto Matías que narra la doble vida del bibliotecario siciliano Matías Pirandello que un día escapa de su pueblo y después se entera que su esposa ha declarado su muerte, oportunidad que aprovecha para iniciar una segunda vida. Ese mismo autor, en el cuento “La tragedia de un personaje”, asegura que los domingos por las mañanas recibe, en audiencias, a los personajes de sus futuras novelas.

¿Cuáles son las sutilezas que caben dentro de las imposturas?

En cada capítulo es algo que voy explorando a través de los juegos a los que se entregan los autores. Por ejemplo, en el caso de Pirandello, él recibía un día a la semana a sus personajes que llegaban a quejarse de su destino.

Lo que dice este autor, Pirandello, es que puede intervenir en el destino de sus personajes y cambiarlos, pero si llegan otros de otras novelas pidiéndole lo mismo porque su autor es malo, le están solicitando corregir fallas o torpezas de su creador. Él decía que con esos no se metía porque era cometer una intromisión, aunque daba a entender que lo podría hacer.

¿No hay un atrevimiento de jugar con esos otros yos por alguna corrección política?

Eso me parece que es otro problema moral de la literatura que no tiene que ver directamente con la impostura. ¿Qué derecho tengo de tomar a un personaje real y escribir sobre él pretendiendo reconstruirlo, pero apoyándome o ayudándome con la ficción? Ese punto ha dado pie a muchos juicios legales porque uno se puede sentir herido o vulnerado en su identidad a partir del momento en que pasa a ser personaje de una obra y producto de la imaginación complementaria del escritor.

Hay un caso que se dio entre Mario Vargas Llosa y su primera esposa. En la novela La tía Julia y el escribidor ella se ofendió por la manera en que fue retratada sin entender muy bien que se trataba de una novela de ficción, entonces replicó con el libro Lo que Varguitas no dijo, muy poco difundido. Ahí nos damos cuenta que ella tendrá razón en cuanto a su verdad, pero el talento está del lado de Vargas Llosa y la novela La tía Julia y el escribidor es una sus mejores obras, por lo que en el terreno literario pierde la verdad.

¿Por qué los autores ya no miran a la imaginación?

Todo nuestro sistema actual está interesado en convertirnos en algo uniforme y no le conviene al poder, al sistema, a los gobiernos, que la imaginación sea un arma porque entonces nos volvemos rebeldes. La imaginación despierta las revoluciones, por ejemplo, atrevernos a pensar un mundo mejor y diferente. Hoy, todo tiende a que la imaginación desaparezca. Las redes sociales ¿qué hacen? que todos veamos lo mismo, pensemos lo mismo.

Veo que todos quieren decir: yo, yo, yo. Tal vez porque nos sentimos ahogados en una especie de uniformidad y sentimos el impulso del individuo a decir: yo existo, creo que soy diferente.

La vertiente que rescato es que el juego de las imposturas nos hace sonreír, no porque tenemos que ser optimistas, no, para nada esa es mi creencia, sino que la literatura despliega todo su poder en este tipo de juegos, se vuelve un arma poderosa. Veamos todas las novelas de anticipación, George Orwell imaginó el mundo que vendría y que ahora es nuestra realidad, ¿cómo lo pudo imaginar? a través de esta arma que es la imaginación.

¿Un arma no sólo para los niños?

La imaginación no es para divertir, hay que distinguir las imposturas del mero divertimento. Mostrar que la literatura es un camino para abrir horizontes cuando en nuestro mundo actual nos quieren cerrar puertas, ventanas, nos llevan a una especie de embudo en que quieren que seamos una cosa. Hay que abrir, ventilar la vida.

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Vila-Matas. Quizás la forma más auténtica de hacer literatura

El País-Colombia

por: L. C. Bermeo Gamboa, periodista de El País. Bogotá.

La genealogía de escritores excéntricos: Luciano, Petronio, Rabelais, Cervantes, Sterne, Diderot, Gógol y Joyce, entre otros, que hicieron literatura por fuera de las convenciones, obedeciendo a un espíritu de alegría y juego imaginativo que aún se mantiene en nuestros días. Como señaló Sergio Pitol en su momento, estos escritores “raros, como los nombró Darío, o excéntricos, como son ahora conocidos, aparecen en la literatura como una planta resplandeciente en las tierras baldías o un discurso provocador, disparatado y rebosante de alegría en medio de una cena desabrida y una conversación desganada (…) Son imprescindibles, gracias a ellos, a su valentía de acometer retos difíciles que los escritores normales nunca se atreverían. Son los pocos autores que hacen de la escritura una celebración”. Y no han faltado excéntricos en la literatura hispanoamericana, durante el siglo XX aparecieron Ramón del Valle-Inclán, Virgilio Piñera, Augusto Monterroso, Mario Levrero, César Aira, Margo Glantz, y desde luego Enrique Vila-Matas, quizá el penúltimo escritor español de la familia excéntrica.

Nacido el 31 de marzo de 1948 en Barcelona, Enrique Vila-Matas creció bajo el influjo de la excentricidad. Después de trabajar como redactor de cine y fracasar bellamente con algunos cortometrajes, fue obligado a cumplir el servicio militar en África, donde empezó a escribir su primera novela ‘Mujer en el espejo contemplando el paisaje’ (1973). Al salir del ejército huyó a París, donde consigue vivir en una buhardilla teniendo como casera a Marguerite Duras. Allí, entre 1977 y 1984, escribió su ciclo de novelas de aprendizaje: ‘La asesina ilustrada’, ‘Al sur de los párpados’, ‘Nunca voy al cine’ y finalmente ‘Impostura’. Obras que hicieron conocido su nombre, pero que no destacaban entre las propuestas literarias de la época. Fue en 1985 con ‘Historia abreviada de la literatura portátil’ que Vila-Matas inauguró un estilo único en la literatura española, la historia de la Sociedad Secreta Shandy y los conjurados de la “escritura cuando esta se convierte en la experiencia más divertida y también la más radical”, renovaron la prosa con una frescura y alegría desconocida para los lectores. Aquí ya aparecieron las marcas del estilo excéntrico de Vila-Matas, su obsesión por Laurence Sterne y su novela ‘Tristram Shandy’, su devoción por Robert Walser y su novela ‘Jakob von Gunten’, las conspiraciones librescas y digresiones ensayísticas, la intertextualidad y la teorización literaria como un juego de metaficción, la manía por las citas y falsas atribuciones, así como la parodia y constante burla de las imposturas literarias.

Vendrían más libros en los años 80 y 90, mientras su estilo maduraba. Fue en la primera década del siglo XXI, cuando Enrique Vila-Matas en un alarde de creatividad publicó una serie de obras que se han considerado “La catedral metaliteraria” en lengua española, compuesta por ‘Bartleby y compañía’ (2000) sobre escritores que abandonan la literatura, ‘El mal de Montano’ (2002) sobre los escritores patológicos que desean transformar toda su vida en literatura, y ‘El doctor Pasavento’ (2005) sobre el escritor que desea desaparecer del mundo en su propia obra. En la segunda década, las patologías y obsesiones literarias serían llevadas otros niveles en libros como ‘Dublinesca’ (2010) sobre un editor que busca desentrañar el misterio del escritor genial, ‘Mac y su contratiempo’ (2017) sobre un escritor que se pregunta si existe la originalidad en literatura, y ‘Esta bruma insensata’ (2019) sobre un escritor que viaja en busca de una cita remota y sin la cual no podría empezar su nuevo libro. Solo estoy resumiendo una trayectoria de medio siglo en la que Vila-Matas suma más de 30 libros de novela, cuento, ensayo y diarios.

A sus 74 años, su creatividad se mantiene intacta, como lo prueba ‘Montevideo’, una nueva novela inclasificable cuyo anónimo narrador emprende la búsqueda final por el sentido verdadero de la literatura y, para encontrarlo, decide cruzar el vórtice entre la realidad y la ficción que está materializado en una puerta, la gran metáfora del misterio y encuentro con lo desconocido. La puerta de ‘Montevideo’ tiene el poder de la ubicuidad, ya que está en el cuarto de un antiguo hotel en Montevideo y en un cuento de Julio Cortázar.

“Hacía años que deseaba pisar el territorio de aquel cuento de ficción, ver el armario, la puerta que estaba detrás del armario, la para mí mítica puerta condenada, intentar averiguar qué pasaba cuando uno entraba en un espacio de ficción que existía al mismo tiempo en el mundo real o, dicho de otro modo, en un espacio del mundo real que no sería nada sin un mundo de ficción, y a la inversa, y así hasta el infinito”, comenta poco antes de cruzar el umbral que lo llevará a revisar su propia obra y comprobar su mayor temor ¿es él un escritor de verdad? Pareciera que en el fondo, esta novela es una elaborada autoevaluación a la que decide someterse un escritor consagrado que, pese a ello, prefiere “no tomarse demasiado en serio la literatura”, quizá la actitud literaria más excéntrica, porque es la forma más auténtica de hacer literatura.

En tiempos que tienden a “comprometer” la creación artística con alguna de las urgencias planetarias y reivindicaciones sociales —absolutamente necesarias—, que existan escritores cuya única ambición es hacer literatura, es algo que considero debe agradecerse. No obstante, algunos alegan que los libros de Vila-Matas no sirven para nada, y quizá tienen razón, aunque así estarían comprobando su excentricidad en tiempos de corrección política. Pero me equivoco, Vila-Matas es un escritor comprometido, su gran reivindicación es mantener vigente la tradición de la verdadera literatura, entendida como un arte libre, inútil y alegre, que se mantiene en contra de todas las imposiciones. Porque, como afirma en ‘Perder teorías’, “uno escribe desde la incertidumbre y eso es lo que permite avanzar, lo que divierte y al mismo tiempo le intriga”.

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Homenaje de la Universitat de Barcelona a ANTONIO TABUCCHI. martes 4 de marzo. [Programa]

Universitat Central de Barcelona. Aula 113

Ore 10.00 -Saluti istituzionali di apertura: Annamaria Di Giorgio (direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura Barcellona),

————-Modera Francesco Luti (Universitat de Barcelona)

Ore 10.10 – Carlos Gumpert (traduttore), La Spagna e Tabucchi;

Ore 10.45 – Gennaro Serio (scrittore), Un battello pieno di gente: piccola

ode marittima a Tabucchi;

Ore 11.40 – Enrique Vila-Matas (scrittore) A Corvo se va por ir;

Ore 12.30 – Perla Martinelli (traduttrice) e Giorgio Silfer (dir. Casa editrice

LF), Pereira in una lingua di lotta culturale: Sostiene Pereira in

Esperanto;

Ore 13.15 – pausa pranzo

—————Modera: Francesco Ardolino (Universitat de Barcelona)

Ore 15.15 – Paolo Di Paolo (scrittore) Letteratura aumentata. Evocazioni,

richiami, riscritture;

Ore 16.00 – Timothy Basi (curatore di “Un baule pieno di gente”, Feltrinelli),

Il baule di Pessoa nel baule di Tabucchi;

Ore 17.30 – Silvia Sesé (direttrice editoriale di Anagrama), Editar a Tabucchi

en España

Ore 18.15 – Maria José de Lancastre Antonio Tabucchi: un percorso

fotografico.

A seguire: chiusura della giornata

Las sesiones en el aula 113 en la planta baja del Patio de Letras

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Se trata, por tanto, de la guerra (Café Perec 18 febrero 2024)

jean-yves jouannais


Una playa de la Vendée en Francia, un día de julio, a las tres de la tarde. Dos niñas de cuatro y ocho años con su padre, el escritor Jean-Yves Jouannais, comienzan una construcción de arena y piedras, sin un plan previo. “¡Vamos a hacer un castillo!”, dicen alegres. No puede todavía el padre saber que un día iniciará un libro que narrará ese momento en el que están de acuerdo en llamar “castillo” a lo que pronto exigirá una barrera de arena que trate de preservarle de la inevitable destrucción.  “Se trata, por tanto, de la guerra, sin ambages, pero no hablamos en esos términos a los niños”, escribirá años después Jouannais al comienzo de Las barreras de arena, el “tratado de castillología” que para Acantilado ha traducido con especial pericia José Ramón Monreal.

Abordar ese libro significó ayer para mí una experiencia insólita. Había comenzado a leerlo de un modo tan despreocupado y a la vez tan feliz por estar y no estar entendiendo lo que leía cuando me asaltó un pánico repentino a comprenderlo todo de golpe, con bofetada a la felicidad incluida. Y es que no había vuelta de hoja: se trataba de la guerra, sin ambages. En aquel libro se investigaba tanto sobre los orígenes del primer castillo playero como sobre la historia de todas las guerras de las que tenemos noticia y de las que Jean-Yves Jouannais es un potente experto.

No hará ni dos meses que el legendario autor de Artistas sin obra cerró su Enciclopedia de las guerras, el ciclo de conferencias escenificadas que venía dando mensualmente desde 2008 en el Pompidou de París. Conferencias que eran “performances”, donde teatralizaba el proceso de escritura de ese libro inmenso, de esa gran Enciclopedia que ha ido construyendo desde la Ilíada a la Segunda Guerra Mundial y que, por su propio carácter ilimitado, siempre supo que evidentemente jamás terminaría.

“Jugamos para perder”, advierte Jouannais en la Vendée a sus hijas. Pero no les dice que detesta los castillos de arena porque desde un principio uno sabe que la marea está subiendo y que la construcción va a ser arrasada, lo que no es agradable.

La marea siempre, con su voluntad de destruir cualquier corriente de vida, y ya no digamos, claro, con su convicción de arrasar la historia de la literatura. Sabe Jouannais que dedicarse a la escritura nunca consistió en la inscripción de una obra personal, sujeta a la reinscripción de la originalidad, sino a “reactivar” una y otra vez la historia de la literatura, a repetir lo ya escrito. Porque la historia de ésta puede verse como una obra colectiva y anónima de la que, al final, solo quedará lo que se ha escrito en la arena en el nombre de todos. Solo quedará –deberíamos saberlo– una sucesión de voces que se fueron expresando en sus respectivas épocas y que, conscientes o no, fueron obsesivamente repitiendo historias, como si creyeran en la inmortalidad cuando en realidad no hicieron más que ritualizar el destino ineludible del ser humano.

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Primera noticia sobre ‘Canon de cámara oscura’, en Seix Barral el 2 de abril 2025

C

        ARIANE SINGER: Hay múltiples referencias en tu obra a autores canónicos. ¿Hay que verlo como una marca de humildad, como el deseo de situarse en la estela de esos autores, o como una forma de ocultarse?
        V-M: Es las tres cosas a la vez. Lo de las referencias literarias comenzó con Historia abreviada de la literatura portátil (1985). Comenzó como un juego. Frases que habían escrito célebres artistas las adjudiqué a otros también célebres autores. Por poner un ejemplo, Salvador Dalí decía cosas que había escrito Henry Miller. Y así todo. Últimamente, la tendencia a “dialogar con los difuntos” la sigo practicando, pero ahora mi trabajo con las citas tiene un tono hasta edificante. Rescato ideas, nombres, frases, libros que la actual velocidad de las cosas está logrando que se olviden. Quién iba a decírmelo. Restauro modestamente la memoria de los grandes autores que tuve el placer de leer y al que muchas personas ya no tienen acceso…
        Pero todo esto también podemos entenderlo, enfocarlo en el sentido que Borges le dio a la literatura como un trabajo colectivo y anónimo. Al final, solo habrá lo que se ha escrito en nombre de todos o, si se prefiere, con el nombre de todos.
        Así que soy consciente de ser parte de un patrimonio universal que transmito a los demás. Me resigno pues a jouer (a interpretar) ese rol de passant (pasante).

De una entrevista en Le Monde ————agosto 2025

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El paisaje como personaje. Tierra de empusas, de Olga Tokarczuk

(de la newsletter de Anagrama)

Olga Tokarczuk también incorpora en su última ficción TIERRA DE EMPUSAS una mirada histórica y literaria hacia el paisaje, que actúa mucho más que como un simple decorado. Fue en el Romanticismo literario que el paisaje se empezó a concebir como un símbolo que permitía comunicar el mundo interior y las emociones de los personajes: entenderlo era una manera de comprender la piscología de las personas. No en vano, el movimiento artístico que precedió el Romanticismo se autodenominó Sturm und Drang, que significa literalmente «Tormenta e Ímpetu». Escribe Tokarczuk: “Siente […] que podría meter el dedo en ese paisaje monumental y hacer en él un agujero que condujera directamente a la nada. Y que esa nada se desbordaría desde allí como un río y finalmente lo alcanzaría también a él, lo agarraría del cuello”

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AL VOLVER A CYNTHIA OZICK

[Café Perec, El País, martes 4 febrero 2025]

Por fin algo nuevo que decir acerca de la sonrisa de la Mona Lisa. Emmanuel Macron ha anunciado que el cuadro tendrá sala propia en el Louvre y habrá que pagar aparte para verlo.

La última vez que leí algo nuevo sobre esa sonrisa fue en Retrato del artista como mala persona, un ensayo en el que Cynthia Ozick comentaba la recién acuñada teoría de que la Gioconda era un autorretrato –Leonardo sin barba– y que su sonrisa no era sino el gesto burlón de un embustero, la broma de un travestido que engañó a todos como niños durante cinco siglos.

Muy bien, decía Ozick, supongamos que hemos desenmascarado un chiste de Da Vinci, ¿tendríamos que reprocharle habernos engañado? Por supuesto que no, puesto que en la propia naturaleza de la obra de arte conviven la invención y el fraude. Ahora bien, esa doble vuelta de tuerca en el engaño, ¿no crea la pregunta de si necesita el artista obrar como una mala persona para ser completo?

Con la pregunta, el ensayo de Ozick se mueve, se desvía levemente de la ruta e inicia su zigzagueo, deja atrás a la Gioconda para iniciar una exploración de la cuestión del compromiso estético opuesto al compromiso moral. Al llegar a este punto, siempre me siento en otra ruta. Es algo que propicia Ozick, para quien la técnica de los cambios de rasante y el serpenteo son algo habitual en sus singulares ensayos. En realidad, no tan singulares, pues si en todos ellos nunca se ocupa de un único asunto es porque reivindica la recuperación de la libertad de los ensayos genuinos. Y al decir “genuinos” pienso en aquellos que antaño llevaban al lector a viajar y extraviarse por los más diversos laberintos mentales para, al llegar al final, descubrir que el hallazgo del ensayo no estaba en la conclusión, en el desenlace, sino en la riqueza del recorrido.

Este abril Ozick –neoyorquina, nacida en 1928, hija de padres rusos que trabajaban en el Bronx– cumplirá 97 años, y es probable que sea la mejor escritora estadounidense viva. No hay año en el que no vuelva yo a su Retrato del artista como mala persona, incluido en Metáfora y memoria. Con el tiempo, las sensaciones en la lectura han ido variando, pero lo que nunca falla es que siempre me río en el tramo en el que habla de lo “último nuevo” sobre la Gioconda. Después, me angustio cuando dice que los autores de novelas, al ejercer su oficio, descansan sobre “una traicionera red de invenciones que les ayudan a la distorsión”. En este punto siempre temo hundirme moralmente, pero remonto en cuanto la ensayista afirma que quienes logran evadirse de las malas personas son ese puñado de escritores, la mayoría inocentes, que se devoran vivos a sí mismos, como Kafka, o Bruno Schulz (sobre éste escribió una novela extraordinaria, El mesías de Estocolmo).

Como todo ahora me empuja a unirme a los inocentes, marcho veloz por una vía estrecha y tortuosa que lleva a una mezcla de bosque, jungla y fondo submarino, donde encuentro a una Cynthia Ozick agazapada, oculta. ¿Qué haces aquí? Sonríe. Como la Gioconda.

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Martin Kohan, por Andrea Calamari (entrevista sobre el estado de la literatura) JOT DOWN.

Martin Kohan

«Yo prefiero pensar el realismo mágico desde el realismo maravilloso de Alejo Carpentier. De Carpentier a García Márquez más que de García Márquez a Isabel Allende porque ahí es donde me parece que hay un tramo valioso de la literatura latinoamericana. Pero si es más allá de lo argentino, Juan Carlos Onetti y más cercanamente Mario Levrero y, cruzando el charco, Enrique Vila Matas porque hace algo no solemne. Generalmente la literatura sobre la literatura es solemne y se llena de mayúsculas pero no en él, que hace de la literatura una máquina de imaginación. Hay una conexión entre Vila Matas y Luis Sagasti que me interesa muchísimo y hay un escritor que admiro mucho que es Héctor Libertella; él arma en su momento, en los años del boom, una especie de canon alternativo respecto a lo que era en ese momento el centro de la escena, empezando por lo que escribía el propio Libertella, más Severo Sarduy, Enrique Lihn, Reinaldo Arenas, una zona alternativa en la que suele entrar también Damián Tabarovski. Esa es una tradición que arma otra literatura latinoamericana.

Martín Kohan: «En la Argentina de Milei, la condición del energúmeno de las redes es el tono de la gestión estatal»

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Voyage avec Vila-Matas. [Un livre de Anne Serre]

huellas V-M francesas —————————— Anne Serre / Jean-Yves Jouannais

Cuando a finales de noviembre de 2015, Anne Serre se instala en el tren París-Montauban, responde a la invitación de un festival literario. Hasta entonces, nada sorprendente ya que Anne Serre es una escritora. Para el largo viaje lleva consigo un libro de Enrique Vila-Matas, que lee con fervor. De repente, el autor español está allí, sentado a su lado: ¿feliz coincidencia o fruto de su imaginación? Anne Serre entabla con él una conversación que parece que comenzó hace mucho tiempo… Más tarde, serán vecinos de habitación en el mismo hotel. Y este colega, maestro en juegos de escritura y efectos espejo, se insertará gradual y misteriosamente en el texto, se convertirá en el narrador, incluso en el detective. Ilusiones que nos acercan a Kafka o Thomas Bernhard Walser o incluso Ana Magnani.

Cuando a finales de noviembre de 2015, Anne Serre se instala en el tren París-Montauban, responde a la invitación de un festival literario. Hasta entonces, nada sorprendente ya que Anne Serre es una escritora. Para el largo viaje lleva consigo un libro de Enrique Vila-Matas, que lee con fervor. De repente, el autor español está allí, sentado a su lado: ¿feliz coincidencia o fruto de su imaginación? Anne Serre entabla con él una conversación que parece que comenzó hace mucho tiempo… Más tarde, serán vecinos de habitación en el mismo hotel. Y este colega, maestro en juegos de escritura y efectos espejo, se insertará gradual y misteriosamente en el texto, se convertirá en el narrador, incluso en el detective. Ilusiones que nos acercan a Kafka o Thomas Bernhard Walser o incluso Ana Magnani.
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L´usage des ruines, de J-Y Jouannais, traducido en Italia por Riccardo Rinaldi


Desde Mesopotamia hasta la Segunda Guerra Mundial , imágenes de ruinas, exaltación de ruinas o anulación de ruinas nos abruman en un viaje en cierto modo doloroso pero esclarecedor del alma humana. A través de la observación de lo que queda tras una acción militar, Jouannais nos presenta un retrato inédito y aterrador de la guerra . La originalidad del planteamiento del tema se ve acentuada por la introducción donde el autor revela, en la introducción de la obra el juego literario y de amistad con Enrique Vila-Matas , uno de los autores españoles contemporáneos de mayor éxito.

Son veintidós retratos que se suceden en un ruido ensordecedor de lanzas, escudos, alabardas, catapultas, balas, bombas, minas y toda la parafernalia que el ser humano, a lo largo de los siglos, ha sabido inventar para destruirse y destruirse. Imaginan ciudades infinitamente hermosas como Cartago que ya no existen; vemos masas infelices de habitantes reducidos a esclavos, expulsados ​​de sus lugares, maltratados, exterminados. Entendemos la historia de ciudades como Dresde y Varsovia que, después de los bombardeos de 1945, fueron pacientemente reconstruidas gracias a las pinturas del pintor veneciano Bernardo Bellotto que, en la segunda mitad del siglo XVIII, las pintó con minuciosa precisión. En China, en el año 341 a.C., asistimos con asombro al desmantelamiento de toda la ciudad de Luoyping por sus habitantes para no cederla al enemigo que la asediaba desde hacía algún tiempo. Nos encontramos con personajes como el escritor sueco Stig Dagermann que, tras ver las ruinas de Hamburgo, se quita la vida. Y podríamos continuar contando los hechos más improbables pero todos absolutamente ciertos, como se desprende de las notas al final del libro.

El volumen combina un fuego artificial de erudición con una profunda reflexión filosófica . Fascina e intimida al mismo tiempo. La palabra ruina suele evocar recuerdos del pasado y en cambio, quizás precisamente porque hemos tenido que acostumbrarnos a la visión cotidiana de la guerra y los escombros, este sorprendente libro, explorando la historia, nos transporta a un mundo, lamentablemente, absolutamente contemporáneo. 

El uso de las ruinas  
de Jean-Yves Jouannais, traducción italiana de Riccardo Rinaldi, pp. 112, Johan & Levi Editore, 2024, Milán, 16 €

https://www.ilgiornaledellarte.com/Articolo/Rovine-cio-che-rimane-alla-fine-di-una-guerra

Vila-Matas obre otra obra de Jouannais_ ARTISTAS SIN OBRAS:

De muy pocos libros—tal vez sólo de Artistas sin obra—puedo decir lo que ahora digo: que estoy convencido de que estaba destinado felizmente a encontrármelo, a leerlo, a verme inspirado decisivamente por él, y que esa influencia no fue nunca creada para el tiempo leve de un eclipse, sino para el resto de mis días».


De muy pocos libros—tal vez sólo de Artistas sin obra—puedo decir lo que ahora digo: que estoy seguro de que estaba destinado felizmente a encontrármelo, a leerlo, a verme inspirado decisivamente por él, y que esa influencia no fue nunca creada para el tiempo leve de un eclipse, sino para el resto de mis días».
Enrique Vila-Matas

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Píntala otra vez. [Café Perec]

21 de enero

Pero la gente cambia, ¿no? Ahora somos una cosa y luego otra. Incluso al que comenta que está cambiando el mundo, la hora en su reloj también le cambia, porque un reloj nunca es retrógrado. Las ciencias cambian que es una barbaridad, decía don Hilarión, y sin embargo muchos siguen creyendo en el concepto de escritor compacto, sin fisuras. Es como si no hubiera comenzado a difuminarse ese concepto de escritor de una sola pieza que desmitificó Pessoa al fraccionarse en una serie de personajes heterónimos. Qué estrategia, por cierto, tan hábil la suya: intérprete puntual de la crisis del sujeto moderno y de sus certezas, trasladó a su obra una otredad múltiple que atribuyó a su desorientación existencial. 

Con todo, el primer heterónimo de la literatura moderna lo creó Valery Larbaud, que se anticipó seis años al primero de Pessoa. Es más, el poeta de Lisboa, a través de su amigo Sa Carneiro, que vivía en París, pudo tener noticia de Barnabooth, el heterónimo de Larbaud, y haber esto influido en la creación de sus heterónimos. Barnabooth pertenecía a esa especie de literatos para quienes las cosas que contribuyen a la civilización tienen que tener en parte contacto con “el placer, juego, gratuidad y divertimento del espíritu”

Sobre el mundo de los espejos y los heterónimos encontré ayer una –involuntaria, supongo– ajustada aportación literaria de George Didi-Huberman al tema. Se encuentra en su libro Aperçues (traducido como Vislumbres), donde cuenta haber conocido la muy vívida sensación de que cada espejo le reflejaba de una manera distinta. En cada nuevo cuarto de baño, de un hotel a otro, él no era el mismo: “Era como si la menor diferencia de encuadre, de azogue, de luz incidental, etc, hicieran irrumpir, desde mi propio cuerpo desdoblado en el espejo, una visibilidad nueva, no menos verdadera, no menos falsa, que todas las demás”. 

Creo que hoy todos los caminos, como los espejos de Didi-Huberman, llevan al genial Smoke, el film de Paul Auster. Recuérdese: el estanquero hace una foto cada mañana a la misma hora desde el mismo ángulo, y aun así las fotos nunca son idénticas. Esa visibilidad nueva está creando un espectador, un lector, cada vez más habituado a la atmósfera general de ambigüedad. Por ella nos movemos todos y algunos, como es mi caso, preguntándonos si no deberíamos volver a mirarlo todo de nuevo otra vez. No se trataría ya tanto de fracasar, sino de volver a mirar, de mirar una y otra vez, hasta que se agoten las versiones –plurales, complejas, infinitas– del mundo. O de un cuadro. Pensemos en Cézanne. Las visiones distintas de Auster de un mismo lugar ya estaban en Cézanne cuando, conocedor de cómo puede cambiar todo de una mirada a otra, pintó ochenta veces la montaña de Sainte-Victoire. En su formidable Paul Cézanne, sonrisas flotando de inteligencia aguda (Abada), incluye Josep M. Rovira todo tipo de intuitivas y cambiantes miradas sobre el pintor de Aix-en-Provence, un hombre convencido de que la finalidad del arte es la elevación del pensamiento.  

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Porque a veces la lectura consuela. —– Café Perec.

Alguien me pregunta por el fin del “año Kafka”. Es verdad, no había caído, ¿pero puede existir un fin de ese año? Si Messi era Maradona todos los días, Kafka viene siendo Kafka todos los años. La pregunta me ha dejado más perplejo que si me hubieran preguntado por la vida de las hormigas en domingo. No sé qué decir, consciente de que cuanto más se dice es no diciendo nada. Al final, no puedo contenerme y hablo del Ruido con mayúscula, que no sólo era una pesadilla para Kafka, lo fue también para muchos este fin de año. Y si no me extiendo más sobre el Ruido que me amargó la noche es porque no encuentro un adjetivo –atronador, satánico, ensordecedor, maléfico, brutal– que permita calificar con precisión la gresca soportada.

Del daño a los oídos y del esperpento de tanto grito, tanta gamba y cigala y tanto ruido de fin de año me consuelo –porque a veces la lectura consuela– al ver que ha habido obviamente multitud de molestias de fin de año mucho peores. La que cuenta, por ejemplo, André Gide en su diario del 31 de diciembre de 1924 cuando despierta de una anestesia con éter y cloroformo después de una inyección de escopolamina y morfina para poco más tarde sentir “cómo el Diablo ha vuelto a tomar posesión de mi cuerpo y, aunque no creo demasiado en él, lo nombro porque es la forma más cómoda de expresarse de forma decorosa”

Lo mismo podríamos decir del ruido con mayúscula, que es el modo más decoroso de nombrar al sórdido ruido y ruido de las Redes en su versión más repugnante. Y lo mismo podría decirse de ese cansino mantra de “Las Redes dicen…” que tragamos a todas horas, como si éstas sentaran cátedra.

En el fondo, el ruido o trompeta nacional ha sido el invitado más coherente para este fin del año Kafka. Es el mismo ruido que vi aparecer por primera vez en las páginas de su diario de febrero de 1915. Ahí se comenta con precisión su lucha por sentirse arropado por el silencio más absoluto y así poder concentrarse y escribir. Es un ruido que a Kafka le desbarata cualquier perspectiva de escritura ya en el mismo primer día de haber tomado una habitación en una casa de la Bilekgasse: “Primera noche. El vecino se pasa horas y horas charlando con mi patrona. Ambos hablan en voz baja, mi patrona de forma casi inaudible, lo que todavía es peor. Interrumpido quién sabe por cuanto tiempo. ¿Me aguarda esa misma calamidad, ridícula, absolutamente letal, en toda patrona que me alquile una pieza para escribir?”

Para que después digan que en Kafka no hay humor. Que se lamente de lo inaudible que es su patrona al hablar con Ruido minúsculo, es un indicio de su risa a prueba de bomba y también de su afán de saber. Recuerdo que en Descripción de una lucha hay una voz que, entre exclamaciones, pide que le cuenten todo, pero Todo, del principio al fin, dice, porque menos no piensa escuchar.    

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