Il fatto che possa esistere, secondo Julio Cortázar, un punto esatto in cui la realtà misteriosamente si sfalda e «il fantastico irrompe nella narrazione», e che quel punto coincida con una porta cieca dentro una stanza d’hotel nel cuore di Montevideo, in Uruguay, sarebbe sufficiente per trasformare quella stanza nel luogo di un pellegrinaggio per chiunque abbia a cuore la realtà e la letteratura. Se poi quella porta della camera 205 dell’Hotel Cervantes di Montevideo non si trova, o resiste a farsi trovare, allora lì non può che iniziare una storia di Enrique Vila-Matas. E infatti si intitola Montevideo, il romanzo con cui l’autore di Il mal di Montano e Dottor Pasavento, è stato nominato tra i libri dell’anno per El Pais, La Vanguardia e El Cultural nel 2022 e che ora Elena Liverani traduce con elegante sintonia per Feltrinelli.
La stanza che Cortázar mise al centro del suo La porta condannata è uno dei magneti intorno a cui vorticano le spirali di questo libro con cui Vila-Matas torna dopo anni con una forza – e una vitalità – contagiose per chiunque metta gli occhi tra le pagine. C’è uno scrittore che non scrive, che sta a Parigi, e in qualche modo non ne può più della celebre frase – «I would prefer not to» – pronunciata dallo scrivano Bartleby di Herman Melville e che avrebbe stregato scrittori a frotte nel consegnarsi al nulla, al non scrivere. Che ovviamente era il nucleo tematico del libro che fece conoscere a tutti Vila-Matas stesso, con Bartleby e compagnia nel 2000. Vila-Matas continua a tirare i fili di un’opera iniziata negli anni 70 e che ancora non finisce. Si complica, si potrebbe anche dire, se non fosse che la ragnatela è sempre più nitida, il tratto è netto e non per questo meno misterioso. È un nastro di Moebius.
Cito il nastro di Moebius per una ragione. Il narratore conferenziere di Montevideo, che per via della sua attrazione per Cortázar, accetta un invito a parlare nella capitale dell’Uruguay, è soltanto una delle variabili dei protagonisti dell’opera di questo autore spagnolo che è tra i nostri maggiori autori viventi. Vila-Matas in fondo manda in avanscoperta sulla pagina ogni volta dei funamboli che si incamminano su un nastro in cui non si può non precipitare. Ma non precipitano mai. È questo, mi pare, il nodo del lavoro di Enrique Vila-Matas. Come mai ci si può incamminare come un fatto automatico, e dunque per puro realismo, e poi di colpo ci si può trovare capovolti, rovesciati? Cosa succede? Qual è il punto in cui la realtà per come la conosciamo non esiste più? Se è la porta di una stanza d’hotel, dice il Cuadrelli alter ego dell’autore, tocca andare a cercarla. E se non la si troverà, beh, semplicemente il nastro si è rovesciato di nuovo.
In questo «tentativo di biografia dello stile», come lo definisce chi racconta la storia, c’è uno struggente e divertito amore per i conti che non tornano. E solo la letteratura, dice Vila-Matas insieme a Cervantes, Laurence Sterne, Borges, etc, ha il coraggio di dire che anche quella è la realtà. Negli ultimi anni della sua vita, Antonio Tabucchi diceva ripetutamente che, per quanto poche, la vita concede sempre altre opzioni. Perché esiste il racconto di quella vita, in fondo. Per questo Enrique Vila-Matas mette proprio l’autore di Sostiene Pereira in apertura del suo romanzo. Tabucchi è in qualche modo il guardiano di quella porta che non si trova, con quel suo «indagare la realtà per poi arrivare a una realtà parallela, più profonda», che a volte accompagna quella visibile. Non sarebbe un buon titolo per un libro, La creazione spensierata?, si chiede il narratore. «Oggi Tabucchi è morto – si risponde – e non posso fargli né questa domanda né molte altre».