GODARD, FUTBOL, NUEVA YORK y JAVIER MARÍAS [Entrevista de Giulio Silvano a Vila-Matas en Rivista Studio (Italia)]

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Intervista allo scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas in occasione dell’uscita italiana del suo ultimo libro, Questa bruma insensata.

Lo scrittore spagnolo gioca, in modo inaspettato e confortante, con la storia della letteratura e con le proprie ossessioni, unendo emozioni e vicende autobiografiche a narrative originali, con richiami alle vite dei poeti e degli autori che ama e che l’hanno segnato. Nelle sue opere lo sguardo del narratore accoglie percorsi espansi, o paralleli, immaginati o reali, di vite vere o di personaggi inventati. Come Borges, Vila-Matas è un lettore formidabile, tira sempre fuori un racconto di Bioy Casares o di Kafka, o di chissà chi, che gli ricorda la situazione che sta vivendo, un passaggio di Rilke o di Walser che usa come specchio della realtà. Libri nei libri, labirinti, eppure mantenendo per tutta la carriera il candore del romanzo di formazione, senza pedanteria professorale, spesso con una prima persona umile e curiosissima. I suoi personaggi sono spesso soli, solitari, persi, o alla ricerca di qualcosa, ma sempre accompagnati dalla sete per la letteratura o per qualche autore che diventa una guida nel mondo. È uscito da poco in Italia per Feltrinelli Questa bruma insensata (edito da Feltrinelli e tradotto da Elena Liverani), un romanzo che gira, anche questo, intorno ai libri e allo scrivere, ma il cui fulcro primario sono l’invidia, il senso di ingiustizia e la vendetta. E il rapporto tra due fratelli.

Nel romanzo, il protagonista è un collezionista di citazioni. C’è qualcosa di incredibilmente postmoderno in quello che è diventato il citazionismo, se si pensa ai meme. E poi vengono in mente Walter Benjamin e Kenneth Goldsmith. Come spesso accade, immagino, con i suoi libri, alcune pulsioni del narratore sono le sue, e quindi l’amore totale per le citazioni.


Gli anni Sessanta sono stati gli anni della mia formazione artistica, che è stata da autodidatta, perché ho frequentato l’università, ma lì non ti insegnano a fare l’artista, soprattutto se studi legge. In quegli anni ho visto parecchi film di Godard, in cui era frequente inserire, nel bel mezzo dell’azione, cartelloni contenenti citazioni, quindi questo mi è sembrato abbastanza normale. Qualche anno dopo, poco prima di pubblicare Storia abbreviata della letteratura portatile, rimasi affascinato da un libro dell’argentino Edgardo Cozarinsky, Vudú urbano, che era allo stesso tempo narrativa autobiografica e un saggio, e un saggio che era come un racconto. Nel prologo di quel libro, Susan Sontag commentò che la profusione di citazioni le faceva pensare «a quei film di Godard che erano disseminati di citazioni». E mi sembra che la frase di Sontag fosse già definitiva, perché era come se mi avesse dato il permesso di citare. In realtà, mi sembra molto chiaro che è stato da quel momento in poi che ho completamente “normalizzato” il rapporto tra la mia scrittura e l’intertestualità, con il mio bisogno di raccontare qualsiasi evento e di collegarlo con la parola scritta, forse perché la scena raccontata non rimanesse crudamente isolata dalla cultura e potesse, inoltre, respirare meglio. Col tempo, chi l’avrebbe mai detto quando guardavo quei film di Godard: è diventata una delle mie caratteristiche stilistiche.

Samuel Riba, il protagonista di Dublinesque, vive a Barcellona ma è convinto che New York sia forse l’unico luogo al mondo dove poter ricominciare e dove poter esser felice. In Questa bruma insensata c’è una New York che è il luogo in cui farcela, ma anche «lo zoccolo duro del capitalismo mondiale»dove si gioca con la «politica dei grandi editori». Nonostante la parentesi parigina – che racconta in Parigi non finisce mai con il praticantato da Marguerite Duras – lei ha sempre vissuto a Barcellona.


Ho sognato di essere il ragazzo che ero stato, il ragazzo di Barcellona che giocava a calcio nell’immenso cortile della casa di famiglia. Nel sogno giocavo senza amici, senza nessun’altro: niente di particolarmente insolito, perché per tutta la mia infanzia avevo giocato da solo in quel cortile. Ma sì: sono sempre stato i ventidue giocatori contemporaneamente; due squadre, quella di casa e quella avversaria. L’anomalia di quel sogno era che, pur giocando nel giardino di casa dei miei genitori e pur contenendo la folla (i ventidue giocatori), stavo giocando circondato dai grattacieli di New York ed ero intensamente felice. Non mi ci volle molto a pensare che, se un giorno fossi andato in quella città, forse avrei recuperato l’intensità, per me così inedita, della felicità così fortemente vissuta nel sogno. Passarono alcuni mesi e fui invitato per lettera – non c’erano ancora le e-mail – a un evento letterario a New York. Ho viaggiato. Quando finalmente sono entrato nella mia camera d’albergo, ho guardato i grattacieli fuori dalla finestra. Sono al centro del mio sogno, pensai. Ma vidi che tutto era ancora uguale, non stava accadendo nulla di diverso. Ho fissato i grattacieli per un po’, cercando di sentirmi felice circondato da grattacieli e, vedendo che non succedeva nulla, assolutamente nulla, alla fine sono andato a letto e mi sono addormentato. Poi ho sognato di essere un bambino di Barcellona che giocava a calcio in un parco giochi di New York. È stato il sogno più bello della mia vita, di assoluta realizzazione. Ho scoperto che il folletto del sogno non era la città, non era New York. Il folletto del sogno era sempre stato il bambino che giocava. E sono dovuto andare a New York per scoprirlo.

Il fratello del protagonista diventa uno scrittore di grande successo quando si trasferisce a New York e inizia a scrivere in inglese. Fa venire in mente Elena Ferrante, che in Italia è diventata famosissima dopo esser passata per il successo americano, e l’ottima traduzione di Ann Goldstein. E poi, come con Pynchon, o artisti come Banksy, c’è il vivere nascosti dal pubblico, un tema che però si rivela anche una trovata editoriale proficua.


Penso che più Pynchon, Ferrante e compagnia si nascondono, più diventano famosi. Sembrano appartenere a un’associazione di “scrittori comodi” ed è come se fossero “doppiamente visti” per il semplice fatto di non lasciarsi vedere.

In realtà, il protagonista e voce narrante vive più nascosto del fratello, scrittore di successo, perché nessuno sa che c’è lui dietro la grandezza letteraria del libro. E c’è un senso di destino avverso che avvolge l’idea della letteratura non commerciale. Esiste la letteratura non commerciale?


Non esiste letteratura che non sia commerciale, che non sia nelle mani dell’industria libraria che può trasformare anche un libro vuoto in un best-seller. Per quanto mi riguarda, da anni cerco di trovare un equilibrio tra la mia scrittura impegnativa e la visibilità che deriva dall’appartenere, con vari gradi di intensità, all’industria del libro. Considero la mia letteratura esigente perché si allontana dal realismo tradizionale, con tutti i problemi che questo può ancora creare a un autore, anche oggi che è noto che non esiste più un solo modo di scrivere romanzi! Ricordo che lo stesso Roberto Bolaño, per citare una persona a me cara, me lo ha ricordato appena ha potuto: non esistono più forme lineari, ma tutte le possibilità di narrazione, tutti i punti di vista, tutte le prospettive possono essere introdotte e sviluppate all’infinito. E in parte è grazie alle “avanguardie storiche”, che non esistono più, ma che hanno contribuito a una comprensione aperta della forma narrativa.

Rispetto al concetto tanto galvanizzato di auto-fiction (in fondo cos’era Tristram Shandy?) cosa pensa di questa attenzione smaniosa del pubblico verso le “storie vere”, che vanno da Knausgård a Carrère fino al Nobel di quest’anno, Annie Ernaux? Cos’è vero e cos’è falso, è una domanda che un lettore dovrebbe farsi?


Non mi piace il termine “autofiction” perché è ridondante, anche la Bibbia è ridondante perché dietro c’è qualcuno che l’ha creata. Preferisco parlare di “fiction” che, tra l’altro, è un termine più breve. Quanto alla “saggistica”, è una variante dell’avvertenza che si metteva all’inizio dei film che, proprio grazie all’avvertenza, sapevamo ci avrebbero annoiato. Proprio perché non ignoravamo che i film che ci piacevano erano quelli che raccontavano storie plausibili, quelle in cui credevamo. Juan Marsé mi diceva sempre che «l’unica verità in un romanzo è quella in cui crede il lettore».

 

Per me, nella geografia letteraria contemporanea della Spagna, se Barcelona è Vila-Matas, Madrid è Javier Marìas. L’ha turbata la sua morte?


Sono rimasto sorpreso, come molte persone che conosco. C’è stata una dichiarazione della famiglia, quindici giorni prima di quella fatidica domenica (perché la sua morte è arrivata nel bel mezzo di una di quelle interminabili domeniche pomeriggio), che spiegava che aveva un problema ai polmoni, ma non entrava nei dettagli. Aveva tre anni meno di me, ma era uno scrittore molto precoce e, nel 1973, quando era appena uscito il mio primo romanzo, lui pubblicò il suo secondo, Travesía del horizonte, un libro che fu decisivo per me perché mi incoraggiò a continuare a scrivere. Cinque anni dopo, quando nel 1978 apparve la sua brillante traduzione di Tristram Shandy, mi sentii molto spaesato. La verità è che ho letto molti dei suoi lavori e ho sempre apprezzato la sua intelligenza.

«Sono solito pensare che un libro nasce da un’insoddisfazione, nasce da un vuoto, i cui perimetri si rivelano strada facendo e al termine del lavoro», scrive in un suo racconto, “Café Kubista”. Da quale vuoto è nato Questa bruma insensata?


La frase di “Café Kubista” è bellissima, ma oggi non la sottoscriverei. Beh, ma diciamo di sì, sono ancora d’accordo con la frase. Questa bruma insensata è nato dall’insoddisfazione di non aver mai avuto un dialogo con me stesso nel magnifico giardino dell’Hotel Alma di Barcellona.

 

 

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