C’è un racconto di Poe in cui l’autore immagina di pedinare per ore un passante. Non riesce a soddisfare la voglia ingorda di sapere chi sia, dove abiti, con chi divida l’esistenza.
Ma è un’indagine destinata a rimanere vana: l’uomo non rincasa, né sembra avere rapporti umani con nessuno, egli si limita a ripetere lo stesso giro del centro città, mimetizzandosi fra gli sconosciuti, per cui la sua identità altro non è che quella di un “man of the crowd”, uomo della folla.
L’invenzione di Poe mi è tornata in mente leggendo Un problema per Mac di Enrique Vila-Matas (Feltrinelli), non fosse altro perché entrambi concepiscono il mondo come un cantiere letterario in cui tutto è materia narrabile, a patto di pedinarla, spiarla, riannodarne le fila. La qual cosa implica una concezione quasi demiurgica dello scrittore, e al tempo stesso ne segna la paralisi creativa, sommergendolo fra valanghe di suggestioni che reclamano d’esser sviluppate.
Ecco, è in particolare su questo paradosso che si regge il libro, risolvendosi in un’ironica inchiesta non tanto sul senso dello scrivere, quanto sulla menzogna dell’originalità. Sì, è vero: tutto è copiato, tutto è già stato scritto, noi non facciamo che ripetere a oltranza opere del passato, e in questo siamo identici al protagonista Mac, determinato a falsificare e modificare il romanzo di un vicino di casa pur di spremerne un libro ( da pubblicarsi postumo, che è garanzia di boom editoriale).
Il divertente è che l’assunto di partenza viene declinato da Vila- Matas in una labirintica galleria degli specchi in cui non c’è tratto che non appaia frutto di rapace appropriazione indebita, e pagina dopo pagina ti scopri a chiederti non chi sia il ladro e chi il derubato, bensì quanto siano infiniti i gradi della ricettazione.
La scrittura è un furto, sempre, ed è solo per elevarne la bassezza che la rapina è stata ribattezzata citazione. Basti dire che fino dalle prime pagine apprendiamo che il nome Mac è ripreso dal personaggio di un film western, e lo stesso quartiere di Barcellona che fa da sfondo alla vicenda si chiama El Coyote dall’eroe di José Mallorquí. Come dire: apologia del plagio?
No: apoteosi. E allora via alle danze: Mac — con la scusa di essere un novizio dello scrivere — si dà a una sorta di sfrenata bulimia narrativa, assembla Gogol’e Borges, Sebald e Barthes, inserisce citazioni di Faulkner ricitate da Bolaño, e pur di cucire il suo patchwork letterario, scopiazza da ogni dove, ivi compreso il testo del dirimpettaio, che a sua volta è un romanzo di trent’anni fa dello stesso Vila- Matas.
E se alla lunga il gioco può stancare, non c’è dubbio che a colpire sia la spietata lucidità con cui l’autore si guarda allo specchio: egli è pur sempre colui che in passato ha rimaneggiato Kafka e Melville, Pessoa e Gombrowicz, e dunque — mi chiedo — da chi se non da lui potremmo accettare questo caustico trattato sul furto.
Che poi, in fondo, oggi siamo un po’ ladri tutti, complice la grande finestra dei social che di per se stessa è l’Eldorado del voyeur. Inserirsi nella vita altrui, sbirciarne le foto per poi appropriarcene cambiandovi la didascalia: tutto questo è percepito come naturale, fa parte dell’ordinaria condotta da utente social. Ma esiste un limite — se non etico, almeno letterario — alla manipolazione del pre- esistente?
Vila- Matas, col suo tipico sogghigno, ci risponde di no: non c’è più argine a delimitare vita reale e fantasia, autobiografia e romanzo, tutto può sconfinare in tutto. Benvenuti nel terzo millennio in cui siamo simultaneamente spie e spiati, narratori e narrati, persone e personaggi, nostro malgrado inglobati in questo mega- romanzo collettivo dove il nostro vissuto è solo il link per accedere ad altro.
Non ci sono più generi, esiste semplicemente un colossale diario in cui ognuno aggiunge un post nutrendosi di altri cento, cosicché ci convinciamo di aver pensato e vissuto esperienze altrui. E dunque attenti, se vi irriterà il goffo Mac che di ogni storia fa una proprietà privata, pensateci bene prima di giudicarlo. Chi è senza peccato scagli il primo post.